Laura Morante “Il cinema è
morto il teatro è vivo”
L’attrice
in tournée con “The country”: mi piace la diretta, essere io in carne e ossa a
dar vita a parole importanti
di
Simonetta Robiony
Laura Morante quest’anno fa teatro. Non una
apparizione di lusso in uno spettacolo alla moda né un recital di due settimane
tanto per provare il brivido del palcoscenico, ma una vera tournée in giro per
l’Italia. In coppia con Gigio Alberti recita The country dell’inglese Martin
Crimp, sotto la guida di un regista raffinato come Roberto Andò.
Scelta ardita per un’attrice cui non manca
mai l’offerta di un buon copione dall’ Italia o dall’estero, amatissima dai
nostri autori da Moretti ad Amelio, dai fratelli Bertolucci a Virzì, da Avati a
Placido, incantati da quel suo sguardo ombroso che fa immaginare chissà quali
misteri e da quel suo modo di recitare apparentemente senza farlo.
Ma perché rinunciare ai primi piani
cinematografici che tanto esaltano il suo fascino per starsene lontana, su una
pedana dove il pubblico non può vedere i lampi che attraversano il suo sguardo?
Forse perché, e lei lo sa, Morante non deve tutto solo
ai suoi occhi ma molto,
e per chi la sente in teatro moltissimo, alla sua voce, chiara e insieme
nervosa, percorsa da una fretta intima che può esser scambiata per una nevrosi,
ma sempre scandita, udibile, perfetta, una voce che va su e giù in mille
sfumature e suscita mille interrogativi. E questo al cinema, distratti
dall’immagine, sfugge.
Da
poco ha debuttato nella sua prima regia con il film Ciliegine, adesso è in
teatro: viene il sospetto che si sia stancata del cinema.
«Nient’affatto. Tutta un’altra storia. Non
pensavo di dirigere Ciliegine, anzi ho cercato a lungo uno che potesse farlo
per me. Da molto tempo scrivo soggetti e sceneggiature e una l’ho anche venduta
in Francia, ma non mi sarei mai messa dietro la macchina da presa per girare
una storia scritta e interpretata da me, se non me l’avesse chiesto il
produttore. L’ho fatto ed è andata bene, ma non so se e quando ripeterò
l’esperienza».
E
il teatro?
«Ci mancavo da 15 anni. L’ho fatto
all’inizio, quando ho cominciato, con Carmelo Bene e ancora credevo che sarei
diventata una ballerina. E quando vivevo in Francia. L’ultima volta in Italia
era il 1996, con Ordine d’arrivo di Franceschi, ma poco prima per la regia di
Monicelli avevo recitato in Le relazioni pericolose. Avevo voglia di tornarci.
Cercavo solo l’occasione giusta».
Cosa
l’ha convinta in The country?
«Il linguaggio interessante, mai banale
tradotto benissimo dall’inglese all’italiano da Alessandra Serra. Il fatto che
fossero pochissimi personaggi in scena e quindi produttivamente non
rappresentasse un grosso impegno. Il coinvolgimento di un regista come Andò. A
me non piace il teatro naturalistico: voglio qualcosa che faccia pensare a
qualcos’altro. Mi piace la parola importante. Avrei fatto perfino una tragedia
al Teatro Greco di Siracusa, ma poi non riuscimmo a combinare».
Che
le piace di più del teatro?
«Le prove. Mi piace passare i giorni a
studiare un testo, un approfondimento che al cinema manca. Un testo deve
vivere: è questa la sfida per un attore. Lo diceva anche Orson Welles: il
cinema è morto, il teatro è vivo. Nel senso che al cinema quel che hai fatto
hai fatto e lo spettatore ti vede in una immagine virtuale mentre in teatro sei
tu in carne e ossa che dai vita alle parole, ogni volta in modo diverso. Al
cinema non può più succedere niente, in teatro tutto. E’ come la musica. Vuoi
mettere ascoltare un’orchestra che suona davanti a te e una registrazione sia
pure perfetta?».
Molti
suoi colleghi dicono: mi piace il rapporto con la gente.
«Anche la gente, anche gli applausi, certo.
Ma le repliche sono alti e bassi. Una sera vorrei restarmene a casa e mi
maledico per aver accettato, un’altra corro a teatro come andassi a una festa,
una volta mi pare di aver dato tutto quello di cui sono capace, un’altra di
esser stata distratta. Da questo dipende se ti senti contenta oppure frustrata.
Il teatro è una altalena».
L’entrata
in scena le fa paura?
«La paura la proviamo tutti, anche se il
pubblico non la vede e non deve vederla. Ci sorregge il ritmo, l’energia, le
battute, i compagni di lavoro. Quando lo spettacolo è finito ce lo diciamo tra
noi e spesso i nostri giudizi sono discordanti».
Cos’è,
invece, che non le piace?
«Fare le valigie. Ancora oggi non le so
fare. E saltare da una piazza all’altra. Da giovane lo sopportavo meglio.
Adesso mi pesa. Per fortuna questo è un giro non tanto faticoso. E a marzo
finisco».
Torna
a girare un film?
Ho tre proposte. Tutte dalla Francia.
Chissà. Magari non ne va in porto nessuna. Vado anche poco al cinema».
Come
si tiene informata? Giornali, tv , internet?
«Io voglio leggere le notizie con una
matita in mano per sottolinearle. Il computer mi fa male agli occhi e la tv con
tutti ‘sti telecomandi non riesco neanche ad accenderla. Le mie due figlie mi
sgridano: “Mamma te l’abbiamo spiegato cento volte!” Niente da fare, non me lo
ricordo. Imparerà prima di me il piccolo che va all’asilo. Non so. Non mi
adeguo ai tempi. Quando giravo Ferie d’agosto i miei compagni di lavoro che
pure avevano la mia stessa età mi definirono “antica”. Sarà perché sono
cresciuta in mezzo a fratelli più grandi di me. Non mi abituo a certe
modernità».
Nessun commento:
Posta un commento