lunedì 7 gennaio 2013

Giorgio Gaber: dieci anni senza il signor G



da: Lettera 43

Dieci anni senza Gaber
Provocatore. Leggero. Impegnato. Controverso. Il primo gennaio 2003 moriva il cantautore milanese. Che con le sue canzoni e il suo teatro ha fatto innamorare e pensare più di una generazione.
di Massimo Del Papa

Come passa il tempo. Frase banale, a volte ignobile, che in bocca a Giorgio Gaber sarebbe suonata beffarda. Ma Gaber, anche se c'è sempre, manca da 10 anni.
Come passa il tempo, lasciando tutto uguale, appena peggiorato: la mancanza del pensiero, i polli in allevamento che siamo. Altro cliché inevitabile. Cosa direbbe oggi Gaber? Forse non ha neppure senso chiederselo, pretendere d'immaginare il pensiero di uno che ce l'aveva, controverso magari, ma sapeva farlo volare. Ed erano i pensieri degli altri, quelli che di pensieri ne avevano pochi, ad adottarlo.
DIECI ANNI SENZA SIGNOR G. Dieci anni senza il signor G., che quest'anno ne avrebbe compiuti 74. Sarebbe vecchio, più vecchio di Dylan, ma di quei vecchi che non invecchiano, che fanno corsa a sé.
Il Gaberscik, di origine triestine ma milanese fino al midollo, che da bambino ascoltava il jazz, che diventava chitarrista con quella mano insidiata dalla poliomielite, come Django Reinhardt, che si inventava un modo si suonare e scopriva il nascente rock and roll in quella Milano nera, piena di vita, di bande, di piombo, di smog.


I CANTORI DELLA MILANO NERA. E lui imparava a cantarla, da solo, con Jannacci, con Dario Fo e con Celentano. Metteva insieme i suoi inni leggiadri, leggeri e beffardi, i suoi luoghi e i personaggi, il Cerutti Gino al bar del Giambellino, il Riccardo che giocava al biliardo, il palo nella banda dell'Ortica e la Torpedo blu con
cui ogni sera andava a prendere la sua bella, popi popi.
Divertissement pieni di tragedia, perché quella Milano là era volentieri tragica, come scopriva Luciano Bianciardi, e nessuno però l'aveva ancora cantata, l'avrebbe cantata in quel modo struggente e distruggente, tra Barbera e champagne.

Ma i cambiamenti sociali covano, ribollono, Milano diventa polveriera di rabbie e di furori e Gaber, sensibile e inquieto com'era, non poteva non avvertirli.
QUELLA TELEVISIONE CHE NON C'È PIÙ. Era affezionato al video, che lo fece sfondare. Lui stesso, anni dopo, ricordò con nostalgia quell'epoca in cui «c'era tutto un altro modo di fare televisione, fatto di gusto, di cose fatte bene, che è andato irrimediabilmente perso». Ma la lasciò, scegliendo definitivamente il teatro, che peraltro frequentava già.
ADDIO CERUTTI. ARRIVA IL SIGNOR G. Il 1970 fu cruciale, un ponte, un passaggio di consegne da se stesso a se stesso, da una tournée con Mina alla scelta di voltare pagina. Il Cerutti andò in pensione, dalle sue bollicine nacque il Signor G. Arrivò la svolta impegnata, critica della società in modo più diretto, più frontale, più rabbioso. L'ironia cedette alla satira, al sarcasmo, a una rabbia non sempre messa a fuoco, come quando, per cantare dell'omicidio di Moro, definito responsabile di 30 anni di malefatte democristiane, ricalcò, consapevolmente o meno, le parole del primo comunicato delle Brigate Rosse che lo tenevano prigioniero.
LA CRITICA DI TORTORA. Una svolta che sconcertò. E che non piacque, per esempio, a Enzo Tortora il quale al Signor G. levò la pelle in un articolo rimasto famoso, ma che forse, nella sua seconda vita, il conduttore «liberale perché ho studiato, radicale perché ho capito», non avrebbe scritto.

Gaber virò senz'altro a sinistra, seguendo un certo vento di contestazione, ma lo fece a modo suo, diventando sempre più disilluso anche verso la sinistra e, per estensione, col mondo.
LA COLLABORAZIONE CON LUPORINI. Un mondo che cambiava e che lui non accettava, non capiva anche se riusciva a farlo capire agli altri, prerogativa degli artisti (e dei cronisti) veri. Insieme con Sandro Luporini, non un paroliere, un semplice partner, quanto la metà platonica della sua anima artistica, il teatro diventò dimensione unica e irrevocabile. Si succedettero le opere e i tour, Dialogo tra un impegnato e un non so, Far finta di essere sani, Anche per oggi non si vola, Libertà obbligatoria, Polli di allevamento, Anni affollati, Io se fossi Gaber, Parlami d’amore Mariù, Il grigio, E pensare che c’era il pensiero.
LO SVILIMENTO DELLA PERSONA. Il pensiero, già. Un'ossessione. Il pensiero che si svalvolava, si svalutava, si sfarinava sempre più. Che degenerò in Un'idiozia conquistata a fatica. E nella traumatica presa d'atto: la persona è svilita, è scaduta, l'umanità non dà segnali positivi.
Forse anche il Signor G. rimpiangeva quella Milano là, poetica e crudele.
TRASFORMATO DALLA MALATTIA. Anche Gaber invecchiò, succede. E i lavori suoi e di Luporini s'incupirono sempre più, fino alle ultime, desolate, estreme constatazioni: La mia generazione ha perso, Io non mi sento italiano (ma per fortuna o purtroppo lo sono).
E c'era già la malattia, e presto arrivò la morte. Da tutta spigoli e angoli che era, la faccia gli era diventata piena e vuota, gonfia e scavata, sempre più somigliante a quella di un’altra grande anima milanese, Alda Merini.

La scomparsa di Giorgio Gaber, 10 anni fa, fu di quelle che provocano un dolore sottile e inevitabile come le sue canzoni e le migliaia di persone al suo funerale parvero ingombranti, un riconoscimento postumo, popolare, che in vita era mancato.
LE TANTE FACCE DI GABER. Gaber non era artista facile, non lo era mai stato, così a cavallo fra cerebralità e improvvisi slanci, caso raro unico in un panorama musicale votato alle facili scorciatoie emotive. Giorgio Gaber no. Poteva tirar fuori delle canzoni alla Brel e subito dopo un’elegia per un amico morente, malato dello stesso male che poi divorò lui.
IMPEGNO MESCOLATO A ROMANTICISMO. Come se non sapesse decidersi tra impegno civile e romanticismo vero, conscio che anche in politica si parla dell’uomo e non basta una dimensione sola per cantarlo. E quell'amore in punta di pudore, Non arrossire...
«Uno di quei tipi rarissimi», avrebbe detto l'appena scomparsa Rita Levi Montalcini, che usavano in egual misura testa e cuore. Cerebrale ed emotivo anche nella satira sociale, distillata a suon di filastrocche grottesche, di gesti ferocemente comici come il farsi uno shampoo.
L'IMMAGINARIO MILANESE. La morte di Gaber resta un sottile dispiacere perché a quelli di due o tre generazioni porta via un mondo irripetibile, in bianco e nero proprio come la televisione che fu. E il mondo è ancora quello là, l'immaginario non cambia: il Giambellino, la Banda dell’Ortica, Porta Romana dei baci rubati. E quelli che giocavano al biliardo nel bar di periferia, la domenica sera, quando lo stadio di San Siro si svuotava e l'umanità risaliva a ondate, come deportati moderni, sui tram che la riportano verso un'altra settimana disperata.
Una Milano straziante che forse non si può raccontare meglio, non si può raccontare affatto senza quelle canzoni. Che restano. Forse più del teatro canzone.
CONDANNATO A ESSERE VATE. Come passa il tempo, e che scherzi fa il destino. Quest'uomo schivo, tormentato, contraddittorio, ipercritico, da 10 anni tenuto in vita dalla potente fondazione gestita dalla moglie, Ombretta Colli, e dalla figlia Dalia, e che ha in programma una seria di manifestazioni importanti per il decennale lungo tutto il 2013, è stato oggi adottato da tutti come il vate che in vita non aveva voluto essere.
L'UNICA CERTEZZA? IL DUBBIO. «Avrebbero voluto», ha commentato Luporini, del quale il primo gennaio esce il primo libro, G. Vi racconto Gaber (Mondadori-Fondazione Gaber) «da Giorgio e da me delle risposte. Proprio da noi che abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio».
Ma va sempre a finire così, chi ha più domande diventa quello a cui succhiano risposte. Giorgio Gaber è oggi di tutti, ma anche preda dei millantatori che lo hanno trasformato in un infallibile, un fenomeno per adolescenti.
Lui invece, quell’uomo col naso dovunque/e la testa poggiata sul mondo, come lo ha dipinto in una poesia Renato Zero, non accendeva folle oceaniche ma un dolore sottile, allegro e sconsolato, che per rimpiangerlo funziona ancora benissimo.

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