da: La Stampa
Nell’anno in cui a
memoria d’uomo i consumi degli italiani si sono più ridotti, il costo della
vita è cresciuto più che negli altri Paesi euro. Non è questa una spietatezza
del mercato. E’ invece un segno che da noi il mercato funziona meno bene che
altrove.
Quando la gente
fatica ad arrivare alla fine del mese, dovrebbe essere difficile ritoccare
all’insù i cartellini dei prezzi. Nel 2012 ha pesato il rincaro del petrolio,
che però è uguale per tutti i Paesi. In Italia un certo effetto aggiuntivo va
attribuito a incrementi di tariffe pubbliche necessari a riportare i conti in
ordine, che nel 2013 non si ripeteranno. Nell’insieme tuttavia la nostra
economia appare più rigida delle altre. Uno degli obiettivi dell’austerità è
appunto riportare l’andamento dei nostri costi e dei nostri prezzi in linea con
quelli degli altri Paesi che condividono la stessa moneta. Restiamo anomali;
secondo le previsioni correnti, può darsi che riusciremo ad avvicinarci
nell’anno appena iniziato.
Sappiamo bene che i
tedeschi hanno in media stipendi più alti dei nostri. Andando in visita a Berlino,
ad Amburgo o a Monaco di Baviera possiamo scoprire in aggiunta che la spesa al
supermercato può perfino costare meno. C’è qualcosa che proprio non va, specie
considerando che i consumi qua calano e là no.
L’inflazione più
alta in Italia è un segno di ingiustizia sociale. Quando un prezzo risponde poco o nulla alla diminuzione della domanda, vuol
dire che chi lo incassa scarica su altri
almeno una parte del peso della crisi. A fronte di chi perde il lavoro e stringe la cinghia,
c’è chi riesce a mantenere
intatti i guadagni. Negli anni scorsi, nicchie protette dalla
concorrenza e rendite di posizione hanno dissipato i vantaggi dell’euro,
facendo crescere il costo della vita, e i costi delle imprese, più in fretta
che nei Paesi forti dell’area. Ora rallentano il riequilibrio e la
ripresa.
Riformare è
difficile. Troppo spesso chi gode di privilegi riesce a farsi ascoltare dai
Parlamenti: è ben noto alla scienza politica che in tutte le democrazie una
lobby piccola e determinata, in possesso di un pacchetto di voti o pronta a
finanziare i politici, riesce spesso a negoziare favori a scapito della
collettività. Così il recente compromesso di bilancio Usa oltre a decisioni
cruciali per il futuro del Paese include anche, tra l’altro, favori per i
produttori di rum.
Qualche cosa è stato
fatto nell’ultimo anno, moltissimo resta da fare. Probabilmente una larga
coalizione consente meglio di sottrarsi ai condizionamenti di interessi
particolari; ma nessuno può vantare patenti di riformismo senza macchie. All’interno
dello stesso governo Monti si sono talvolta gabellate come misure «per lo
sviluppo» alcune che invece distorcevano il mercato a favore di interessi
particolari (come due sgravi fiscali ai costruttori, per fortuna poi bocciati
entrambi). Anche dove la concorrenza c’è, spesso è difficile per i consumatori
ricavarne tutti i benefici. Basti pensare alle intricate formule tariffarie per
cui è arduo rendersi conto chi ci offre a miglior prezzo l’elettricità o il
telefono. Dove manca, la concorrenza stenta ad arrivare: da tempo l’azione
dell’autorità Antitrust si è appannata, e per ora non si intravedono segni di
ripresa.
Non basta soltanto
indicare buoni propositi. Occorre riuscire a far appello ai cittadini in nome
dell’interesse collettivo, ripulendo i canali di trasmissione delle scelte
politiche. I gruppi di potere che vogliono tenere tutto com’è non si
intrecciano soltanto con le parti più logore della classe politica, ma con una
burocrazia abilissima nel restare gattopardescamente a galla nel cambio delle
stagioni.
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