lunedì 7 gennaio 2013

Stefano Lepri: "Il costo delle lobby"


da: La Stampa

Nell’anno in cui a memoria d’uomo i consumi degli italiani si sono più ridotti, il costo della vita è cresciuto più che negli altri Paesi euro. Non è questa una spietatezza del mercato. E’ invece un segno che da noi il mercato funziona meno bene che altrove.  

Quando la gente fatica ad arrivare alla fine del mese, dovrebbe essere difficile ritoccare all’insù i cartellini dei prezzi. Nel 2012 ha pesato il rincaro del petrolio, che però è uguale per tutti i Paesi. In Italia un certo effetto aggiuntivo va attribuito a incrementi di tariffe pubbliche necessari a riportare i conti in ordine, che nel 2013 non si ripeteranno. Nell’insieme tuttavia la nostra economia appare più rigida delle altre. Uno degli obiettivi dell’austerità è appunto riportare l’andamento dei nostri costi e dei nostri prezzi in linea con quelli degli altri Paesi che condividono la stessa moneta. Restiamo anomali; secondo le previsioni correnti, può darsi che riusciremo ad avvicinarci nell’anno appena iniziato. 

Sappiamo bene che i tedeschi hanno in media stipendi più alti dei nostri. Andando in visita a Berlino, ad Amburgo o a Monaco di Baviera possiamo scoprire in aggiunta che la spesa al supermercato può perfino costare meno. C’è qualcosa che proprio non va, specie considerando che i consumi qua calano e là no. 

L’inflazione più alta in Italia è un segno di ingiustizia sociale. Quando un prezzo risponde poco o nulla alla diminuzione della domanda, vuol dire che chi lo incassa scarica su altri almeno una parte del peso della crisi. A fronte di chi perde il lavoro e stringe la cinghia, c’è chi riesce a mantenere intatti i guadagni. Negli anni scorsi, nicchie protette dalla concorrenza e rendite di posizione hanno dissipato i vantaggi dell’euro, facendo crescere il costo della vita, e i costi delle imprese, più in fretta che nei Paesi forti dell’area. Ora rallentano il riequilibrio e la ripresa. 

Riformare è difficile. Troppo spesso chi gode di privilegi riesce a farsi ascoltare dai Parlamenti: è ben noto alla scienza politica che in tutte le democrazie una lobby piccola e determinata, in possesso di un pacchetto di voti o pronta a finanziare i politici, riesce spesso a negoziare favori a scapito della collettività. Così il recente compromesso di bilancio Usa oltre a decisioni cruciali per il futuro del Paese include anche, tra l’altro, favori per i produttori di rum. 

Qualche cosa è stato fatto nell’ultimo anno, moltissimo resta da fare. Probabilmente una larga coalizione consente meglio di sottrarsi ai condizionamenti di interessi particolari; ma nessuno può vantare patenti di riformismo senza macchie. All’interno dello stesso governo Monti si sono talvolta gabellate come misure «per lo sviluppo» alcune che invece distorcevano il mercato a favore di interessi particolari (come due sgravi fiscali ai costruttori, per fortuna poi bocciati entrambi). Anche dove la concorrenza c’è, spesso è difficile per i consumatori ricavarne tutti i benefici. Basti pensare alle intricate formule tariffarie per cui è arduo rendersi conto chi ci offre a miglior prezzo l’elettricità o il telefono. Dove manca, la concorrenza stenta ad arrivare: da tempo l’azione dell’autorità Antitrust si è appannata, e per ora non si intravedono segni di ripresa. 

Non basta soltanto indicare buoni propositi. Occorre riuscire a far appello ai cittadini in nome dell’interesse collettivo, ripulendo i canali di trasmissione delle scelte politiche. I gruppi di potere che vogliono tenere tutto com’è non si intrecciano soltanto con le parti più logore della classe politica, ma con una burocrazia abilissima nel restare gattopardescamente a galla nel cambio delle stagioni.

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