da:
La Stampa
Carrierismo
e vanità, peccati nella Chiesa
Jorge
Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, commenta per Vatican Insider i
lavori del Concistoro e le parole del Pontefice
di Andrea
Tornielli
Nel recente concistoro, che si è tenuto nel
mezzo delle polemiche per le fughe di documenti dalla Segreteria di Stato
vaticana, Benedetto XVI ha voluto che i cardinali parlassero della nuova
evangelizzazione. E il Papa ha richiamato i porporati allo spirito di servizio,
richiamando tutti all’umiltà. L’arcivescovo
di Buenos Aires, il gesuita Jorge
Mario Bergoglio, che ha origini
familiari torinesi, è una delle figure di spicco dell’episcopato
latinoamericano. Nella sua diocesi,
Buenos Aires, già da tempo la Chiesa va nelle strade, nelle piazze, nelle
stazioni per evangelizzare e amministrare i sacramenti. Vatican Insider lo ha
intervistato chiedendogli di commentare i lavori del concistoro e le parole del
Pontefice.
Come
vede la decisione del Papa di indire un anno della fede e di insistere sulla
nuova evangelizzazione?
«Benedetto XVI insiste nell’indicare come
prioritario il rinnovamento della fede, e presenta la fede come un regalo da
trasmettere, un dono da offrire, da condividere un atto di gratuità. Non un
possesso, ma una missione. Questa priorità indicata dal Papa ha una dimensione
di memoria: con l’Anno della fede
facciamo memoria del dono ricevuto. E questo
poggia su tre pilastri: la memoria dell’essere stati scelti, la memoria della
promessa che ci è stata fatta e dell’alleanza che Dio ha stretto con noi. Siamo
chiamati a rinnovare l’alleanza, la nostra appartenenza al popolo fedele a Dio»
Che
cosa vuol dire evangelizzare, in un contesto come quello dell'America Latina?
«Il contesto è quello emerso dalla quinta
conferenza dei vescovi dell’America Latina, che si è tenuta ad Aparecida nel
2007. Ci ha convocato a una missione continentale, tutto il continente è in
stato di missione. Si sono fatti e si fanno dei programmi, ma c’è soprattutto
l’aspetto paradigmatico: tutta l’attività ordinaria della Chiesa si è impostata
in vista della missione. Questo implica una tensione molto forte tra centro e
periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve uscire da se stessi,
andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa
autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni
uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia.
E tra una Chiesa accidentata che esce
per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel
preferire la prima».
Qual
è la sua esperienza a questo proposito in Argentina e in particolare a Buenos
Aires?
«Cerchiamo il contatto con le famiglie che
non frequentano la parrocchia. Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e
che riceve, cerchiamo di essere una Chiesa che esce da se stessa e va verso gli
uomini e le donne che non la frequentano, che non la conoscono, che se ne sono
andate, che sono indifferenti. Organizziamo delle missioni nelle pubbliche
piazze, quelle in cui si raduna molta gente: preghiamo, celebriamo la messa,
proponiamo il battesimo che amministriamo dopo una breve preparazione. È lo
stile delle parrocchie e della stessa diocesi. Oltre a questo cerchiamo anche
di raggiungere le persone lontane attraverso i mezzi digitali, la rete web e
dei brevi messaggi».
Nel
discorso al concistoro e poi nell'omelia della messa di domenica 19 febbraio,
il Papa ha insistito sul fatto che il cardinalato è un servizio come pure sul
fatto che la Chiesa non si fa da sola. Come commenta le parole di Benedetto
XVI?
«Mi ha colpito l’immagine evocata dal Papa,
che ha parlato di Giacomo e Giovanni e delle tensioni interne ai primi seguaci
di Gesù su chi dovesse essere il primo. Questo ci indica che certi
atteggiamenti, certe discussioni, sono sempre avvenute nella Chiesa, fin dagli
inizi. E questo non ci dovrebbe far scandalizzare. Il cardinalato è un
servizio, non è un’onorificenza di cui vantarsi. La vanità, il vantarsi di se stessi, è un atteggiamento della
mondanità spirituale, che è il peccato peggiore nella Chiesa. È
un’affermazione questa che si trova nelle pagine finali del libro “Méditation
sur l’Église” di Henri De Lubac. La
mondanità spirituale è un antropocentrismo religioso che ha degli aspetti
gnostici. Il carrierismo, la ricerca di avanzamenti, rientra pienamente in
questa mondanità spirituale. Lo dico spesso, per esemplificare la realtà
della vanità: guardate il pavone, com’è bello se lo vedi da davanti. Ma se fai
qualche passo, e lo vedi da dietro, cogli la realtà… Chi cede a questa vanità
autoreferenziale in fondo nasconde una miseria molto grande».
In
che cosa consiste, allora, l’autentico servizio del cardinale?
«I cardinali non sono gli agenti di una
ONG, ma sono servitori del Signore, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo,
che è Colui che fa la vera differenza tra i carismi, e che allo stesso tempo
nella Chiesa li conduce all’unità. Il cardinale deve entrare nella dinamica
della differenza dei carismi e allo stesso tempo guardare all’unità. Avendo
coscienza che l’autore, sia della differenza come dell’unità, è lo stesso
Spirito Santo. Un cardinale che non entri in questa dinamica, non mi sembra sia
cardinale secondo ciò che chiede Benedetto XVI».
Questo
concistoro si è tenuto in un momento difficile, di tensione, a motivo della
fuga di documenti dal Vaticano. Le parole del Papa come aiutano a guardare a
questa realtà?
«Le parole di Benedetto XVI aiutano a
vivere questa realtà dal punto di vista della conversione. Mi è piaciuto che
l’ultimo concistoro si sia tenuto alle soglie della Quaresima. È un invito a
guardare alla Chiesa santa e peccatrice, a guardare a certe mancanze e a certi
peccati senza perdere di vista la santità di tanti uomini e di tante donne che
operano oggi nella Chiesa. Non devo scandalizzarmi perché la Chiesa è mia
madre: devo guardare ai peccati e alle mancanze come guarderei ai peccati e
alle mancanze di mia mamma. E quando io mi ricordo di lei, mi ricordo
innanzitutto di tante cose belle e buone che ha compiuto, non tanto delle
mancanze o dei suoi difetti. Una madre si difende con il cuore pieno d’amore,
prima che con la parole. Mi chiedo se nel cuore di molti che entrano in questa
dinamica degli scandali ci sia l’amore per la Chiesa».
Può
dire com’è vista, com’è percepita la curia romana dall’esterno?
«Da
me è vista e vissuta come un organismo di servizio, un organismo che mi
aiuta e mi serve. A volte giungono notizie non buone, spesso amplificate e
talvolta anche manipolate con scandalismo. I giornalisti a volte corrono il
rischio di ammalarsi di coprofilia e così fomentare la coprofagia: che è poi il peccato che segna tutti gli uomini e
tutte le donne, cioè quello di guardare sempre alle cose cattive e non a quelle
buone. La curia romana ha dei
difetti, ma mi sembra che si sottolinei troppo il male e troppo poco la santità
di tantissime persone consacrate e laiche che vi lavorano».
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