Un
mare di trivelle
Con l’avvenuto annuncio - in data 8 marzo
2013 - della firma di un decreto interministeriale con il quale i ministeri
dell’Ambiente e dello Sviluppo economico hanno ratificato ufficialmente la Strategia energetica nazionale (Sen), il
futuro energetico dell’Italia è segnato da una programmazione che parte, ancora
una volta, dalle fonti fossili. E punta ai fondali marini
di Pietro
Dommarco
Un centinaio di pagine stilate con la
consulenza ed i suggerimenti dei principali operatori attivi nel nostro Paese,
oggi scadenzate in uno specifico decreto ignoto. Nessuna sorpresa, considerando
che la bozza di Strategia energetica nazionale è stata condivisa con
associazioni e cittadini, solo ed esclusivamente, quando già in cassaforte. In
poche parole una consultazione ininfluente fino all’annuncio di Corrado Clini
(nella foto): “Io e Corrado Passera abbiamo firmato”. Un colpo di mano attuato
in tempi non sospetti, così come avvenuto con i noti decreti su “Liberalizzazioni”
e “Sviluppo”, che in termini applicativi hanno già sortito i primi effetti in
ambito di nuove e vecchie istanze e nuovi e vecchi permessi di ricerca di
idrocarburi in terraferma e in mare.
Quel mare italiano sul quale spunta addirittura uno specifico report allegato
al Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse (Buig) del
28
febbraio 2013, della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche
del ministero dello Sviluppo economico. Un vademecum, in 76 pagine, interamente
dedicato alle attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi in mare ed al
loro sviluppo futuro, nel quale è possibile trovare espliciti riferimenti a
quello che sarà il suo orientamento petrolifero tra obiettivi e priorità
d’azione. Nel documento, infatti, che “con riferimento al settore
dell’upstream, l’Italia ha a disposizione ingenti riserve provate di gas e
petrolio, le più importanti dell’Europa continentale dopo i paesi nordici. In
particolare, dagli ultimi dati disponibili circa il 60% delle riserve di gas si
trova nelle zone marine e proprio dal mare proviene anche il 70% della
produzione italiana”.
Pertanto, per far salire dal 7% al 14% il contributo al fabbisogno energetico
totale, i mari italiani dovranno “accollarsi” parte della produzione,
soprattutto perché - come riporta lo stesso vademecum - “le attività offshore
sono state profondamente condizionate proprio dalle modifiche introdotte in
passato al Decreto legislativo n.3 aprile 2006 n.152 che ha interdetto tali
attività in molte aree, bloccando di fatto la maggior parte delle attività di
ricerca e sviluppo offshore e cancellando progetti per 3,5 miliardi di euro”.
Ci sono quindi da recuperare 3,5 miliardi di euro di investimenti bloccati dal
Decreto Prestigiacomo, ma poi sbloccati dalla sanatoria del ministro Passera.
In questo modo l’Adriatico, lo Jonio ed il mar di Sicilia in primis
assisteranno all’intensificarsi di autorizzazioni in un contesto generale che
vede 21 permessi di ricerca vigenti in mare, 37 nuove istanze per permessi di
ricerca, 66 concessioni di coltivazione vigenti e 11 istanze per nuove
concessioni di coltivazione. Una situazione a rischio da non sottovalutare che
minaccia un enorme patrimonio fatto di riserve marine, coste, pesca e turismo.
A tal proposito, a preoccupare ancor di più - come denunciato da Altreconomia
nel settembre del 2012 - è la mancata applicazione nel nostro Paese della
Convenzione di Barcellona, entrata in vigore il 12 febbraio 1978 e
successivamente modificata il 10 giugno 1995 in “Convenzione per la protezione
dell'ambiente marino e della regione costiera del Mediterraneo”. La Convenzione
di Barcellona ha portato alla stesura di 7 protocolli d'intesa tra i 21 Stati
aderenti, tra i quali il “Protocollo contro il pericolo di inquinamento del
Mediterraneo derivante dal trasporto e dallo scarico in mare di sostanze
pericolose”. Proprio uno di quelli che, attualmente, non risultano in vigore in
Italia e che fa aumentare notevolmente la preoccupazione di possibili
contaminazioni del mare.
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