mercoledì 6 marzo 2013

Decennio 2000-2010: redditi scesi per lavoratori dipendenti, cresciuti per lavoratori autonomi


da: la Repubblica

Operai e impiegati più poveri nel decennio d’oro del popolo delle partite Iva
Tra il 2000 e il 2010, secondo i dati della Banca d’Italia, c’è stato un gigantesco trasferimento di reddito dai lavoratori dipendenti a quelli autonomi
di Adriano Bonafede Massimiliano Di Pace

La classe operaia non va più in paradiso. Anzi, tra il 2000 e il 2010 è scivolata verso l’inferno. È quanto emerge dall’indagine sui bilanci delle famiglie che la Banca d’Italia realizza ogni due anni, misurando redditi, consumi e ricchezza delle famiglie italiane, suddivise per condizione professionale. Gli ultimi dati si fermano al 2010 ma è presumibile pensare che questo trend sia continuato e si sia anzi accentuato nei due anni successivi. Per i lavoratori manuali, il reddito netto è cresciuto non soltanto meno di quello di tutti gli altri gruppi sociali, ma anche molto meno dell’inflazione. I numeri parlano chiaro: le famiglie della classe che un tempo Marx indicò come l’attore principale che avrebbe dovuto scardinare il sistema capitalistico hanno vissuto durante il “decennio berlusconiano” un vero e proprio tracollo.

Di fronte a un aumento complessivo del reddito netto familiare del 12,8 per cento, ovvero dell’1,3 medio annuo, hanno dovuto subire un incremento dell’inflazione, nello stesso periodo, molto più elevato, con il 2,2 per cento medio annuo. Alla fine del decennio i redditi netti reali sono scesi del 9,5 per cento. Ma i dati della Banca d’Italia dicono molto di più. Dicono che c’è
stato un gigantesco trasferimento di risorse – quelle scarse risorse che in un magro decennio l’Italia ha saputo creare – dai lavoratori dipendenti nel loro complesso (compresi dunque gli operai) a quelli autonomi (imprenditori, liberi professionisti, commercianti).
I primi, infatti, hanno perso il 3,1 per cento di reddito rispetto all’inflazione (più 19,2 per cento la crescita del reddito contro un’inflazione del 22,3), mentre i secondi hanno visto crescere le loro entrate del 10,3 per cento in più rispetto alla marcia del carovita.
Entrando all’interno delle varie categorie, troviamo che, tra i lavoratori dipendenti, sono stati i dirigenti a vincere, con un aumento dei redditi superiore di ben 14,1 punti percentuali rispetto all’inflazione. Gli impiegati sono riusciti a malapena a tenere il passo del costo della vita, con una crescita di 1 solo punto percentuale rispetto all’aumento dei prezzi. Imprenditori e liberi professionisti, invece, hanno preso un 10,1 per cento in più. Anche la categoria dei pensionati ha preso un 10,1 per cento in più, ma la spiegazione di questo dato è complessa (vedi articolo a parte). Insomma, qualsiasi pozione sia stata versata nel fiume sociale nello scorso decennio, di certo non ha avvelenato tutte le classi allo stesso modo, ma ha fatto una cernita colpendo – a quanto pare non alla cieca – soprattutto i più deboli, rendendoli ancora più deboli di prima. Nel decennio d’oro di Berlusconi è stata l’upper class ad avvantaggiarsi nettamente. La maggior parte dei lavoratori dipendenti (ad esclusione dei dirigenti) sono invece diventati relativamente più poveri. Mentre, per gli operai, è sorprendente scoprire che nel primo decennio del XXI secolo questa categoria non si è soltanto depauperata più di tutte ma è diventata anche più numerosa, arrivando a rappresentare il 23,1 per cento delle famiglie invece che il 20,8 per cento d’inizio secolo. Quali sono le cause di questo grande rimescolamento di carte? Di certo hanno giocato due fondamentali fattori: da una parte la bassa crescita economica, la più bassa dell’area Uem 17, ossia dei Paesi dell’Eurozona; dall’altra ha agito quella tassa occulta che si chiama inflazione.
Un’inflazione che in questi anni è stata in Italia costantemente più elevata rispetto a quella degli altri Paesi del club dell’euro. La somma dei tassi di inflazione annuali dal 1999 al 2012, ossia da quando c’è l’euro, è stata per l’Italia pari a 32,8 punti percentuali, a fronte dei 29,3 punti della media Uem 17. In altre parole in Italia i prezzi sono cresciuti più velocemente rispetto alle altre nazioni che condividono con noi la moneta unica. Se poi si fa un confronto con gli Stati dell’Uem più grandi, si vede che l’Italia ha avuto una dinamica inflattiva ancora più evidente rispetto alla Francia (25,5 punti) e alla Germania (22,9 punti), sebbene inferiore alla Spagna (39,5). Ma quest’ultimo Paese ha almeno avuto in compenso una crescita economica di gran lunga più elevata rispetto a quella italiana, che è stata inoltre inferiore a quella di tutti gli altri Paesi europei.

Il ristagno dell’economia
Per quanto riguarda la crescita del Pil, è Eurostat a dirci che l’Italia negli ultimi 14 anni (1999-2012) ha visto sviluppare la propria economia in termini reali di soli 7,3 punti percentuali (circa mezzo punto l’anno in media), mentre nello stesso periodo la Spagna registrava una crescita di gran lunga superiore, visto che il Pil reale era aumentato di 29,6 punti, ossia 4 volte di più rispetto al tasso di crescita italiano. Ma la Spagna non è stata un’eccezione, poiché tutta l’area dell’euro è cresciuta a un passo decisamente più veloce, visto che l’incremento del Pil reale è stato pari al 22,4 per cento in 14 anni, ossia l’1,6 per cento l’anno, un ritmo superiore di 3 volte rispetto a quello dell’Italia. D’altro canto vicini alla media dell’Eurozona si trovano i tassi di incremento del Pil della Francia (20,1 per cento) e della Germania (18,9 per cento), a conferma che in Europa vi è un’anomalia: si tratta dell’Italia, che tra l’altro smentisce con il suo comportamento le teorie economiche, che affermano che nei Paesi dove la crescita economica è bassa, l’inflazione è normalmente moderata. Bassa crescita e inflazione sono, dunque, le probabili principali chiavi di lettura delle dinamiche su redditi, consumi e ricchezza che vediamo fotografate in pagina.

Redditi e consumi Il confronto tra andamento dei redditi e consumi ci fornisce alcuni spunti di riflessione. I consumi sono cresciuti per tutte le categorie e subcategorie più del corrispondente aumento dei redditi. Il che significa che tutti hanno dovuto limitare i loro risparmi per continuare a mantenere lo stesso stile di vita del passato. Nessun gruppo sociale si è convinto, almeno fino al 2010, a cominciare una vera “cura dimagrante” rispetto al proprio livello di consumi, nella disperata attesa di una ripresa economica che non soltanto non si è mai materializzata ma che è infine sfociata esattamente nel suo opposto, la tanto temuta doppia recessione. Ma la crescita dei consumi, pur superiore a quella del reddito, non è riuscita nel caso delle famiglie degli operai a tenere il ritmo dell’inflazione: infatti i loro consumi sono scesi in termini reali di 2,1 punti percentuali nel decennio 2000-2010; segno che hanno dovuto far ricorso ai loro risparmi in misura maggiore delle altre categorie. È sorprendente notare come non sia cambiato niente rispetto a mezzo secolo fa: più si va avanti nella scala sociale più si riesce a far fronte alle difficoltà. Gli impiegati hanno aumentato i loro consumi del 7,4 per cento rispetto all’inflazione, ma i dirigenti sono arrivati al più 19,9, mentre il totale dei lavoratori autonomi ha raggiunto un più 15,3 per cento. Anche i pensionati sono riusciti ad accrescere i loro consumi del 18,8 per cento. Da notare che un aumento dei consumi c’è stato, ma non ha prodotto la sperata crescita del Pil. È quindi probabile che l’incremento dei consumi sia stato destinato all’acquisto di prodotti stranieri e abbia prodotto una crescita del Pil dei paesi dai quali importiamo. Non è un caso che i deficit commerciali più pesanti li registriamo proprio con Germania e Cina. Conclusioni Il quadro disegnato dalla Banca d’Italia mostra un paese in difficoltà, dove le differenze sociali si accentuano e le categorie più forti (autonomi, imprenditori, liberi professionisti, dirigenti) ottengono congrui aumenti dei redditi, mentre quelle più deboli (operai, ma anche impiegati, che insieme rappresentano il 40% della società italiana) vanno avanti a fatica o addirittura si rassegnano, come i lavoratori manuali, a consumare di meno in termini reali rispetto a 10 anni prima, nonostante lo sfruttamento di parte dei risparmi.
Per quanto tempo questo andamento potrà continuare? E fino a quando chi si sta progressivamente impoverendo a fronte di un relativo aumento del benessere delle categorie privilegiate continuerà ad avere un atteggiamento rassegnato? Ma forse la protesta è già cominciata, e i risultati elettorali possono senz’altro essere letti come una risposta parziale e istintiva a questi problemi. 

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