da: Corriere
della Sera
La democrazia è un
cantiere sempre aperto. Ogni giorno si forma e si trasforma, anche se per lo
più non ci facciamo caso. La folla dei muratori nasconde l’opificio, la polvere
di calcinacci ci impedisce di vedere. Eppure sta cambiando, qui, adesso. E la
cifra della sua metamorfosi si riassume in una parola: solitudine. Dei leader,
dei cittadini, delle istituzioni.
Ne è prova il
confronto tra l’uomo che ha segnato gli ultimi vent’anni e quello che forse
dominerà il prossimo ventennio. Berlusconi inventò il partito personale, schiacciato
e soggiogato dal suo capo. Ma un partito c’era, con i suoi gonfaloni, con i
suoi colonnelli. Invece Renzi è un leader apartitico, senza partito. Ha
successo nonostante il Pd, talvolta contro il Pd. Il suo colore è il bianco,
come la camicia sfoggiata a Bologna insieme agli altri leader della sinistra
europea. E il bianco è un non colore, non esprime alcuna appartenenza.
D’altronde tutti i
soggetti associativi sono in crisi, perciò sarebbe folle legarsi mani e piedi
alle loro sventure. La fiducia nei partiti vola rasoterra dagli anni Novanta;
adesso è sottoterra, al 6,5%. Nelle associazioni degli imprenditori credono
ancora 3 italiani su 10, e appena 2 nei sindacati. È in difficoltà pure la
Chiesa, ma papa Francesco riscuote il 91% delle simpatie popolari. Come
peraltro Renzi, che surclassa la popolarità del suo governo (64%). Perché
contano i singoli, non gli organismi collettivi. Contano i sindaci, non i
consigli comunali. Conta il governatore, non l’assemblea della Regione: se il
primo inciampa, cadono tutti i consiglieri. Mentre il Parlamento nazionale è
già caduto, è un fantasma senza linfa: per Eurispes, se ne fida il 16% degli
italiani. Invece il presidente della Repubblica, sia pure in calo, rispetto al
Parlamento triplica i consensi.
E allora viva le
istituzioni monocratiche, abbasso la democrazia rappresentativa. Come
sostituirla? Con un tweet, nuova fonte oracolare del diritto. O con una fonte orale:
ne ha appena fatto uso il ministro Orlando, annunziando un emendamento al
decreto sulla giustizia. Anche se quel testo nessuno lo conosce, anche se
Napolitano non l’ha ancora timbrato, anche se la competenza ad emendarlo
spetterebbe semmai all’intero Consiglio dei ministri. Ma quest’ultimo è
l’ennesimo organismo collegiale caduto ormai in disgrazia, sicché ciascun
ministro fa come gli pare. Sempre che sia d’accordo poi il primo ministro,
dinanzi al quale tutti gli altri non sono che sottoministri.
E lui, l’uomo solo al comando, come comanda?
Berlusconi seguiva l’onda dei sondaggi, a costo di cambiare idea tre volte al giorno, se gli piovevano sul tavolo tre
rilevazioni differenti; Renzi non sonda,
consulta. Il 15 settembre s’aprirà la grande consultazione sulla scuola,
dopo quella sullo sblocca Italia, sulla giustizia, sulla burocrazia, sul Terzo settore.
Anche la riforma costituzionale (art. 71) fa spazio a nuove «forme di
consultazione».
Nel 1992 fu l’utopia di Ross Perot, outsider
alle presidenziali americane: una società atomistica, in cui ciascuno
potesse promuovere o bocciare qualunque decisione di governo, schiacciando un
tasto sul computer mentre fa colazione. Non è l’utopia di Renzi, anche perché
in Italia i consultati non decidono alcunché. Ma la consultazione è diventata lo strumento per stabilire un rapporto
verticale con il leader, nel vuoto di rapporti che segue l’eclissi di ogni
aggregazione collettiva. Il risultato?
Parafrasando Gaber: l’incontro di due solitudini, in un Paese solo.
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