lunedì 8 settembre 2014

Franco Battiato: “Non sapete quello che vi aspetta”



da: la Repubblica di Luca Valtorta

“Per me l’unica cosa che conta nella vita è la parte esistenziale, quella che ti mette alla prova: non mi interessano le conferme, essere rassicurante per chi ti viene a vedere, dargli quello che vuole. Se fai questo tradisci il tuo ruolo”.


Negli anni '70 Gianni Sassi, grafico e discografico, ordisce una campagna pubblicitaria rottura per i divani Busnelli, Deconstualizzando, a insaputa dello stesso Battiato una foto scattata per la sua band di allora, gli Osage Tribe.


C’è una cattiva atmosfera nell’aria. Sulla Versilia si è appena riversata una bomba d’acqua, il cielo è nero. Fa freddo. Il mare quando piove è una delle cose più inutili e tristi della terra. Il concerto di questa sera è in forse. È uno dei quattro show che solo pochi fortunati potranno vedere. O sfortunati, se siete tra quelli che non hanno mai sentito parlare di visionari album quali Fetus e Pollution e pensate di vedere un normale live di Franco Battiato. Questa atmosfera negativa lui la sente. Si capisce subito quando in perfetto orario appare nella stanza “exotica” dell’hotel con il lungo impermeabile che ama indossare anche in concerto quando l’umidità avanza. Il divano dell’intervista è posto vicino a un bocchettone di aria condizionata che emana freddo in un pomeriggio freddo. Ci spostiamo. Ci sediamo su un divano a righe nere e grigie
verticali davanti al quale è posto un cassettone zebrato e ordiniamo un tè verde. «Oggi è sabato?», mi chiede. «Oggi è domenica». «Devo ricordarmi di comprare il tè», risponde contrariato. «Che tipo di tè?», chiedo. «Tè bianco. Da un po’ di tempo uso tè bianco». Fuori il cielo si sta aprendo, un raggio di sole sottile filtra dalla finestra e illumina il tavolo zebrato. Fiat lux. È il segno che l’intervista può iniziare.

Negli anni Settanta, dieci anni prima di successi epocali come Cuccurucucù o Bandiera bianca e quasi trenta prima de La cura, lei era considerato un pazzo visionario: autore di album sperimentali come Fetus e Pollution che vengono ancora oggi considerati di assoluta avanguardia, progenitori di tanta musica elettronica, l’unico genere ancora innovativo vista la ripetitività attuale di rock e pop...
«Erano dischi abbastanza interessanti».
Eppure lei nel corso del tempo li ha sempre sminuiti, considerandoli meno validi della sua produzione pop e classica. Adesso invece ha deciso, sorprendendo tutti, di tornare a quella sperimentazione con un nuovo disco, Joe Patti’s Experimental Group. E di fare anche dei concerti. 
«Io avverto le persone che vengono a vedermi: “Non sapete quello che vi aspetta”, dico all’inizio. Loro si mettono a ridere».
Ma chi è Joe Patti?
«Mio zio, fratello di mia madre, immigrato negli Stati Uniti, in Florida (Pensacola), all’età di ventanni. Diventò ricco aprendo un‘impresa, che pescava ed esportava pesce».
E come mai ha scelto di usare il suo nome per un ritorno alla musica sperimentale?
«Mi piaceva il suono».
C’è un segmento del suo pubblico che considera la parte elettronica come l’unica valida di tutta la sua carriera.
«Lo so, lo so. Dicono: “Battiato è stato Battiato solo fino al 1975”. Ho chiesto molto in questi anni a quelli che mi seguono. Per me l’unica cosa che conta nella vita è la parte esistenziale, quella che ti mette alla prova. Non mi interessano le conferme, essere rassicurante per chi ti viene a vedere, dargli quello che vuole. Se fai questo tradisci il tuo ruolo».
In quegli anni fare sperimentazione cosa voleva dire?
«Il valore da dare a quei primi dischi è diverso se lo contestualizziamo ad allora perché le cose che proponevo erano completamente nuove. La parte più valida del mio lavoro però, secondo me, è quella mistica».
Non c’era una parte mistica anche nella sperimentazione?
«Forse sì. Il tipo di ricerca nel terzo disco, Sulle corde di Aries , era una sorta di musica primigenia».
Sulle corde di Aries iniziava con un pezzo di oltre diciotto minuti, Sequenze e frequenze ...
«Esattamente. Quello aveva qualcosa di metafisico».
C’era anche un brano che sarebbe diventato un classico, Aria di rivoluzione...
«Quella però era una canzone».
Con elementi politico-visionari.
«È vero: quella che chiameremmo musica sociale. Era influenzata da una causa superiore. Il risultato di tanto afflato? Dopo dieci anni, tutti in discoteca».
C’è stato un personaggio molto importante con cui ha lavorato, Gianni Sassi, grafico e discografico, creatore di riviste come Alfabeta e La Gola, inventore dell’etichetta Cramps di Area, Finardi, John Cage, inventore del festival Milano Poesia e art-director delle celebri e criticatissime copertine dei suoi primi dischi: il feto che appare su Fetus, il limone schiacciato di Pollution...
«Era sicuramente una persona geniale anche se io non ero d’accordo con lui su tutto. Per esempio la campagna con cui ha cercato di lanciarmi che diceva cose tipo: “Battiato è un buffone... la gente non ne può più” era una cosa notevole. Pollution venne definito come “il gesto finale di un artista ingrato, il crimine lucido di un genio malato”. Inventò il marketing autodistruttivo».
Risultato?
«Fetus e Pollution hanno venduto più di quindicimila copie. Pollution arrivò al decimo posto in classifica, una cifra incredibile per dischi del genere anche in quei tempi».
E poi c’è la storia della famosa pubblicità del divano. Ma Sassi le aveva detto che avrebbe utilizzato quella foto?
«No. Busnelli, il padrone dell’azienda, gli tolse la commissione: arrivarono migliaia di lettere di protesta. Andò così: Sassi mi disse che voleva fare un servizio fotografico nel suo stile provocatorio al gruppo con cui suonavo allora, gli Osage Tribe. Avevo degli orrendi pantaloni con la bandiera americana che mi aveva regalato Claudio Rocchi (grande musicista e cantautore, recentemente scomparso, ndr), degli occhiali da sole, un paio di stivali e in faccia e sulle mani avevo messo del cemento che, sotto i riflettori, iniziò a creparsi. Mi fece sedere su un divano ma io non avevo proprio idea che volesse usare quella foto per fare la campagna pubblicitaria dei divani Busnelli. Quando la vidi mi arrabbiai. Era ovunque. Sopra c’era scritto: “Che c’è da guardare? Non avete mai visto un divano?”. Non è finita: in quel periodo andai a fare la visita militare. Mentre aspettavamo c’era uno che sfogliava una rivista. A un certo punto si ferma alla pagina della pubblicità del divano e grida schifato: “Ma guarda un po’ questo trans!”. E io: “Ma no, è solo un trucco pubblicitario”. Non mi riconobbe nessuno. Non era facile, per fortuna».
E il militare l’ha poi fatto?
«Fu una storia pazzesca. Dopo la visita mi mandarono a Cassino. Mi tagliarono subito i capelli e mi diedero una divisa troppo larga che io non andai a far riaggiustare. La prima domenica di libera uscita, non mi fecero uscire. Non sapevo che fare e mi misi a passeggiare. A un certo punto incrocio un graduato anziano pieno di stellette sulla giacca. Un secondo dopo che l’ho oltrepassato sento un urlo. “Ehi tu!”, “Dice a me?”, rispondo. E lui sempre urlando: “Vedi qualcun altro qui?”. Io: “Mi dica”. “Mi dica? Chi sei?”. “Battiato”. “Non me ne frega un cazzo del tuo nome: mi devi dire a che reparto appartieni!”. “Non lo so”. Se ne andò urlando frasi sconnesse. Io sparii. Un’altra volta dovevamo andare a sparare: per me era come ricevere una coltellata. Dico: “Non posso camminare”. Mi hanno portato in autoambulanza. La notte alle due mentre ero nella branda, sirene: tutti si vestono. Mi affacciai: pioveva e fuori facevano, strisciando, il passo del leopardo. “Digli che non sto bene”. Al mattino il capitano mi fece chiamare: “Quelli come te io li conosco. Tu sei uno che non vuole fare il militare. Purtroppo non posso rischiare per cui ti mando in ospedale al Celio di Roma ma tu tornerai da me e allora ti farò pulire i cessi con la lingua!”. Non mi vide più».

Tornando alla sperimentazione, su Elettronica e musica , il primo libro sul genere in Italia scritto da Franco Fabbri nel 1984, Luigi Nono dice: “Strumenti che illudono per ‘viaggi interplanetari’ musicali, anche se comunque introducono sia nella prassi che nell’ascolto segnali acustici di altro tipo rispetto alle convenzioni ripetitive del consueto”. Sembra piuttosto critico sull’uso dei sintetizzatori...
«La musica elettronica era una cosa davvero rivoluzionaria. E il Vcs che usavo io all’epoca era incredibile».
Il Vcs l’avrebbero usato anche i Pink Floyd in brani come Meddle. Ma lei l’ha fatto prima: come è stato possibile?
«Il costruttore me l’ha venduto sei mesi prima che andasse sul mercato così ho potuto sperimentare: era come se partisse un treno ad alta velocità verso l’infinito».
E la gente come reagiva?
«Benissimo di solito. Ogni tanto c’erano delle contestazioni: una volta al Palalido di Milano ci fu un festival di gruppi rock a cui anch’io partecipavo. Ci saranno state diecimila persone, appena salito sul palco ho iniziato il mio concerto. Diecimila fischi! Allora ho incominciato a mettere gli oscillatori in frequenze tra i sei e i settemila hertz: non si capiva più se i fischi venivano dalla musica o dal pubblico. La gente era sconcertata da quei suoni ma alcuni si complimentarono».
Uno dei pezzi più famosi di quel periodo era Propriedad Prohibida, diventata poi sigla di Tg2 Dossier e che è stata rifatta per questo disco. Come mai?
«Perché secondo me è un brano travolgente che non ha perso niente in attualità, anzi paradossalmente l’ha acquistata».
Lei allora era uno dei pochi italiani a essere conosciuto anche all’estero: l’elettronica non aveva confini, il pop sì...
«Questo è vero. Nel 1975 sono stato chiamato a rappresentare l’Italia alla Roundhouse di Londra per l’European Rock Festival a cui partecipavano i Magma, i Tangerine Dream, gli Ash Ra Tempel, il meglio della scena sperimentale di quel periodo insomma. Avevo i capelli lunghi, una camicia militare, la barba non rasata e come strumenti un giradischi che usavo in maniera “distruttiva” molto tempo prima dei dj hip hop con lo “scratch”, una radio sulle onde corte e una televisione come “noise”. Quando ho cominciato a suonare all’inizio nessuno diceva niente perché pensavano che fossi il tecnico delle apparecchiature. Ma dopo dieci minuti alcuni hanno incominciato a gridarmi “Go home!”, mentre altri dicevano “More!”. Ancora una volta era scoppiato l’inferno!».

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