da: la Repubblica di Luca Valtorta
“Per me l’unica cosa che
conta nella vita è la parte esistenziale, quella che ti mette alla prova: non
mi interessano le conferme, essere rassicurante per chi ti viene a vedere,
dargli quello che vuole. Se fai questo tradisci il tuo ruolo”.
C’è una
cattiva atmosfera nell’aria. Sulla Versilia si è appena riversata una
bomba d’acqua, il cielo è nero. Fa freddo. Il mare quando piove è una delle
cose più inutili e tristi della terra. Il concerto di questa sera è in forse. È
uno dei quattro show che solo pochi fortunati potranno vedere. O sfortunati, se
siete tra quelli che non hanno mai sentito parlare di visionari album quali
Fetus e Pollution e pensate di vedere un normale live di Franco Battiato. Questa atmosfera
negativa lui la sente. Si capisce subito quando in perfetto orario appare nella
stanza “exotica” dell’hotel con il lungo impermeabile che ama indossare anche
in concerto quando l’umidità avanza. Il divano dell’intervista è posto vicino a
un bocchettone di aria condizionata che emana freddo in un pomeriggio freddo.
Ci spostiamo. Ci sediamo su un divano a righe nere e grigie
verticali davanti
al quale è posto un cassettone zebrato e ordiniamo un tè verde. «Oggi è
sabato?», mi chiede. «Oggi è domenica». «Devo ricordarmi di comprare
il tè», risponde contrariato. «Che tipo di tè?», chiedo. «Tè bianco. Da un po’
di tempo uso tè bianco». Fuori il cielo si sta aprendo, un raggio di sole
sottile filtra dalla finestra e illumina il tavolo zebrato. Fiat lux. È il
segno che l’intervista può iniziare.
Negli anni Settanta, dieci anni prima di successi
epocali come Cuccurucucù o Bandiera bianca e quasi trenta prima
de La cura, lei era considerato un pazzo visionario: autore di album
sperimentali come Fetus e Pollution che vengono ancora oggi
considerati di assoluta avanguardia, progenitori di tanta musica elettronica,
l’unico genere ancora innovativo vista la ripetitività attuale di rock e pop...
«Erano dischi abbastanza interessanti».
Eppure lei nel
corso del tempo li ha sempre sminuiti, considerandoli meno validi della sua
produzione pop e classica. Adesso invece ha deciso, sorprendendo tutti, di
tornare a quella sperimentazione con un nuovo disco, Joe Patti’s Experimental
Group. E di fare anche dei concerti.
«Io avverto le persone che vengono a vedermi: “Non sapete quello che vi
aspetta”, dico all’inizio. Loro si mettono a ridere».
Ma chi è Joe
Patti?
«Mio zio, fratello di mia madre, immigrato negli Stati Uniti, in
Florida (Pensacola), all’età di ventanni. Diventò ricco aprendo
un‘impresa, che pescava ed esportava pesce».
E come mai ha
scelto di usare il suo nome per un ritorno alla musica sperimentale?
«Mi piaceva il suono».
C’è un segmento
del suo pubblico che considera la parte elettronica come l’unica valida di
tutta la sua carriera.
«Lo so, lo so. Dicono: “Battiato è stato Battiato solo fino al 1975”.
Ho chiesto molto in questi anni a quelli che mi seguono. Per me l’unica cosa
che conta nella vita è la parte esistenziale, quella che ti mette alla prova.
Non mi interessano le conferme, essere rassicurante per chi ti viene a vedere,
dargli quello che vuole. Se fai questo tradisci il tuo ruolo».
In quegli anni
fare sperimentazione cosa voleva dire?
«Il valore da dare a quei primi dischi è diverso se lo
contestualizziamo ad allora perché le cose che proponevo erano completamente
nuove. La parte più valida del mio lavoro però, secondo me, è quella mistica».
Non c’era una
parte mistica anche nella sperimentazione?
«Forse sì. Il tipo di ricerca nel terzo disco, Sulle corde di Aries ,
era una sorta di musica primigenia».
Sulle corde di Aries
iniziava con un pezzo di oltre diciotto minuti, Sequenze e frequenze ...
«Esattamente. Quello aveva qualcosa di metafisico».
C’era anche un
brano che sarebbe diventato un classico, Aria di rivoluzione...
«Quella però era una canzone».
Con elementi politico-visionari.
«È vero: quella che chiameremmo musica sociale. Era influenzata da una
causa superiore. Il risultato di tanto afflato? Dopo dieci anni, tutti in
discoteca».
C’è stato un
personaggio molto importante con cui ha lavorato, Gianni Sassi, grafico e
discografico, creatore di riviste come Alfabeta e La Gola, inventore
dell’etichetta Cramps di Area, Finardi, John Cage, inventore del festival
Milano Poesia e art-director delle celebri e criticatissime copertine dei suoi
primi dischi: il feto che appare su Fetus, il limone schiacciato di
Pollution...
«Era sicuramente una persona geniale anche se io non ero d’accordo con
lui su tutto. Per esempio la campagna con cui ha cercato di lanciarmi che
diceva cose tipo: “Battiato è un buffone... la gente non ne può più” era una
cosa notevole. Pollution venne definito come “il gesto finale di un artista
ingrato, il crimine lucido di un genio malato”. Inventò il marketing
autodistruttivo».
Risultato?
«Fetus e Pollution hanno venduto più di quindicimila copie. Pollution
arrivò al decimo posto in classifica, una cifra incredibile per dischi del
genere anche in quei tempi».
E poi c’è la
storia della famosa pubblicità del divano. Ma Sassi le aveva detto che avrebbe
utilizzato quella foto?
«No. Busnelli, il padrone dell’azienda, gli tolse la commissione:
arrivarono migliaia di lettere di protesta. Andò così: Sassi mi disse che
voleva fare un servizio fotografico nel suo stile provocatorio al gruppo con
cui suonavo allora, gli Osage Tribe. Avevo degli orrendi pantaloni con la
bandiera americana che mi aveva regalato Claudio Rocchi (grande musicista e
cantautore, recentemente scomparso, ndr), degli occhiali da sole, un paio di
stivali e in faccia e sulle mani avevo messo del cemento che, sotto i
riflettori, iniziò a creparsi. Mi fece sedere su un divano ma io non avevo
proprio idea che volesse usare quella foto per fare la campagna pubblicitaria dei divani Busnelli. Quando la vidi mi arrabbiai. Era ovunque. Sopra c’era scritto: “Che c’è
da guardare? Non avete mai visto un divano?”. Non è finita: in quel periodo
andai a fare la visita militare. Mentre aspettavamo c’era uno che sfogliava una
rivista. A un certo punto si ferma alla pagina della pubblicità del divano e
grida schifato: “Ma guarda un po’ questo trans!”. E io: “Ma no, è solo un
trucco pubblicitario”. Non mi riconobbe nessuno. Non era facile, per fortuna».
E il militare
l’ha poi fatto?
«Fu una storia pazzesca. Dopo la visita mi mandarono a Cassino. Mi
tagliarono subito i capelli e mi diedero una divisa troppo larga che io non
andai a far riaggiustare. La prima domenica di libera uscita, non mi fecero
uscire. Non sapevo che fare e mi misi a passeggiare. A un certo punto incrocio
un graduato anziano pieno di stellette sulla giacca. Un secondo dopo che l’ho
oltrepassato sento un urlo. “Ehi tu!”, “Dice a me?”, rispondo. E lui
sempre urlando: “Vedi qualcun altro qui?”. Io: “Mi dica”. “Mi dica? Chi sei?”.
“Battiato”. “Non me ne frega un cazzo del tuo nome: mi devi dire a che reparto
appartieni!”. “Non lo so”. Se ne andò urlando frasi sconnesse. Io sparii.
Un’altra volta dovevamo andare a sparare: per me era come ricevere una
coltellata. Dico: “Non posso camminare”. Mi hanno portato in autoambulanza. La
notte alle due mentre ero nella branda, sirene: tutti si vestono. Mi affacciai:
pioveva e fuori facevano, strisciando, il passo del leopardo. “Digli che non
sto bene”. Al mattino il capitano mi fece chiamare: “Quelli come te io li
conosco. Tu sei uno che non vuole fare il militare. Purtroppo non posso
rischiare per cui ti mando in ospedale al Celio di Roma ma tu tornerai da me e
allora ti farò pulire i cessi con la lingua!”. Non mi vide più».
Tornando alla
sperimentazione, su Elettronica e musica , il primo libro sul genere in Italia
scritto da Franco Fabbri nel 1984, Luigi Nono dice: “Strumenti che illudono per
‘viaggi interplanetari’ musicali, anche se comunque introducono sia nella
prassi che nell’ascolto segnali acustici di altro tipo rispetto alle
convenzioni ripetitive del consueto”. Sembra piuttosto critico sull’uso dei sintetizzatori...
«La musica elettronica era una cosa davvero rivoluzionaria. E il Vcs
che usavo io all’epoca era incredibile».
Il Vcs
l’avrebbero usato anche i Pink Floyd in brani come Meddle. Ma lei l’ha fatto
prima: come è stato possibile?
«Il costruttore me l’ha venduto sei mesi prima che andasse sul mercato
così ho potuto sperimentare: era come se partisse un treno ad alta velocità
verso l’infinito».
E la gente come
reagiva?
«Benissimo di solito. Ogni tanto c’erano delle contestazioni: una volta
al Palalido di Milano ci fu un festival di gruppi rock a cui anch’io
partecipavo. Ci saranno state diecimila persone, appena salito sul palco ho
iniziato il mio concerto. Diecimila fischi! Allora ho incominciato a mettere
gli oscillatori in frequenze tra i sei e i settemila hertz: non si capiva più
se i fischi venivano dalla musica o dal pubblico. La gente era sconcertata da
quei suoni ma alcuni si complimentarono».
Uno dei pezzi
più famosi di quel periodo era Propriedad Prohibida, diventata poi sigla di Tg2
Dossier e che è stata rifatta per questo disco. Come mai?
«Perché secondo me è un brano travolgente che non ha perso niente in
attualità, anzi paradossalmente l’ha acquistata».
Lei allora era
uno dei pochi italiani a essere conosciuto anche all’estero: l’elettronica non
aveva confini, il pop sì...
«Questo è vero. Nel 1975 sono stato chiamato a rappresentare l’Italia
alla Roundhouse di Londra per l’European Rock Festival a cui partecipavano i
Magma, i Tangerine Dream, gli Ash Ra Tempel, il meglio della scena sperimentale
di quel periodo insomma. Avevo i capelli lunghi, una camicia militare, la barba
non rasata e come strumenti un giradischi che usavo in maniera “distruttiva”
molto tempo prima dei dj hip hop con lo “scratch”, una radio sulle onde corte e
una televisione come “noise”. Quando ho cominciato a suonare all’inizio nessuno
diceva niente perché pensavano che fossi il tecnico delle apparecchiature. Ma
dopo dieci minuti alcuni hanno incominciato a gridarmi “Go home!”, mentre altri
dicevano “More!”. Ancora una volta era scoppiato l’inferno!».
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