da: Il Fatto Quotidiano
Inchiesta
nigeriana L’Ad in difesa (con autogol)
Tutti
i guai di Descalzi, l’Eni annaspa
di Stefano
Feltri
Per Claudio Descalzi, l’amministratore delegato dell’Eni, ogni giorno è peggio. Ieri il titolo dell’azienda energetica è sceso del 3,21 per cento a Piazza Affari. Effetto fisiologico dell’acconto del dividendo 2014, 0,56 centesimi per azione, deciso mercoledì scorso? Sicuramente, ma anche del clima negativo attorno al gruppo dopo che i giornali hanno rivelato l’avviso di garanzia a De-scalzi. L’accusa è di aver partecipato a un complesso affare in Nigeria: l’Eni comprava un colossale giacimento dal governo, ma decine di milioni sono finiti su conti svizzeri. Dovevano andare ai mediatori, il nigeriano Obi e gli italiani Luigi Bisignani e Gianluca Dinardo, ma anche ai manager Eni, inclusi l’ex Ad Paolo Scaroni e Descalzi. Questa l’accusa (anche se i soldi poi sono stati fermati in Svizzera).
Dopo aver incassato il colpo, Descalzi ha
reagito. Con risultati discutibili, chissà se colpa del suo carattere meno
istrionico di quello di Scaroni, o della riduzione annunciata del budget
destinato a pubblicità e giornali (200 milioni) oppure
dell’uscita dall’azienda
dello storico capo delle relazioni esterne, Stefano Lucchini. Scaroni, indagato
per la presunta mazzetta nigeriana ma anche per un’operazione della controllata
Saipem, riusciva a stendere una cortina di silenzio attorno all’azienda.
Descalzi no. La scelta di affidare il suo punto di vista a Gad Lerner, in un
colloquio su Repubblica di domenica, gli si ritorce contro. Lerner nota che il
manager ha “la voce strozzata dal pianto”, e un capo azienda in lacrime non è
quello che vogliono vedere i grandi fondi internazionali azionisti dell’Eni.
Descalzi dice a Lerner: “Da mesi io non prendo più le chiamate di Scaroni, qui
dentro sto cambiando tutto”. Ma sul Giornale esce un informato (e velenoso) articolo del vicedirettore Nicola Porro
secondo cui Descalzi “non prende le
chiamate di Scaroni ma pare che accetti gli inviti a cena. Un tavolo per pochi,
compresa sua moglie congolese Madò”. L’ad Eni capisce il messaggio e si
trova costretto a smentire se stesso, smentita sollecitata da Bisignani in
un’intervista al Fatto: non comandava solo Scaroni sull’Eni e “non è vero che
non parlo da mesi al telefono con Scaroni”. L’offensiva mediatica di De-scalzi
prosegue sulla Stampa, dove appare un retroscena del vice direttore Francesco
Mana-corda sul “futuro dell’Eni” che avverte: “L’indagine sul manager potrebbe
indebolire il processo di rinnovo”: più esplorazione che raffinazione, asse
Nord-Sud invece che Est-Ovest, ulteriore vendita di preziosi giacimenti (come
faceva Scaroni per far tornare i conti), vendita di Saipem. Il senso è chiaro:
Descalzi sta ribaltando le scelte strategiche di Scaroni, le inchieste possono
solo danneggiare lui e l’azienda. Che è quello che ha detto il premier Matteo
Renzi in Parlamento. Lo riconosce anche l’ultima relazione semestrale dell’Eni,
firmata da Descalzi: i processi per corruzione contro l’Eni possono determinare
“significative perdite nei prossimi anni”.
Il contesto non è facile. Ma poteva essere
peggiore: come ricorda il senatore Pd Massimo Mucchetti, oggi Renzi è garantista con Descalzi che ha
voluto alla testa dell’Eni sei mesi fa. Ma il premier, ad aprile, invocava la modifica
dello statuto Eni chiesta dal governo Letta: i manager imputati (Descalzi, come
Scaroni, è solo indagato), decadono e non sono eleggibili. “È vero quello
che dice Scaroni, il criterio di onorabilità non c’è negli altri Paesi ma noi
siamo contenti che ci sia”. L’assemblea degli azionisti ha poi messo in
minoranza il Tesoro, che ha il 30 per cento, e la clausola non è passata. E Renzi deve aver cambiato idea. Ma la
situazione di Descalzi è sempre più complicata.
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