da: Huffington Post
Ha qualcosa di sconvolgente (nel senso
letterale di "sconvolgere") il principio contenuto nell'emendamento
del governo al Jobs Act sulle cosiddette "tutele crescenti", da applicare ai nuovi contratti di lavoro
subordinato.
Leggiamo: "(...) il Governo è delegato
ad adottare, (...) in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le
convenzioni internazionali, (...) la previsione, per le nuove assunzioni, del
contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità
di servizio".
Da questa disposizione si ricava che, nella
nuova versione del welfare italico prospettata dal governo, sarà l'anzianità di
servizio a determinare il livello di godimento dei diritti costituzionali da
parte dei lavoratori, dunque, nella generalità dei casi, l'età dello stesso
lavoratore.
Nel nostro ordinamento, solo la maggiore
età costituisce uno spartiacque nella storia personale di un individuo,
delineando una linea di confine tra un prima ed un dopo nella scala di
godimento dei diritti sanciti dalla Costituzione. Beninteso, un minore non ha
diritto di voto, non ha facoltà piena di porre in essere atti negoziali, ma non
per questo è passibile di soprusi e di discriminazioni. Anzi, c'è una tutela
rafforzata che lo riguarda, in quanto "soggetto debole".
Nello schema proposto dal governo in
materia di rapporti di lavoro, c'è invece un rovesciamento del principio: più sei giovane (in Italia si può lavorare
già a 13 anni) meno tutele e diritti avrai. Nel caso specifico
dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e segnatamente della reintegra
in caso di licenziamento senza giusta causa, questo capovolgimento di scenario
implicherebbe una vergognosa correlazione tra giovane età e possibilità di
subire licenziamenti arbitrari o, addirittura, discriminatori, anche
licenziamenti funzionali al non raggiungimento della soglia di "anzianità
di servizio" prevista dalla legge per l'accesso al godimento di alcuni
diritti.
Abile però il governo, ed il premier in
particolare, a presentare la "riforma" come un rimedio al regime di
apartheid che oggi vigerebbe nel mondo del lavoro, nel senso che la fattispecie
denunciata sarebbe proprio quella che si andrebbe a concretizzare nel momento
in cui venisse approvata la nuova disciplina in materia di rapporti di lavoro
proposta dall'esecutivo.
Se davvero
il governo avesse in mente di eliminare le discrepanze esistenti tra lavoratori "tradizionali" e
lavoratori "atipici", certamente non inizierebbe ad occuparsi dei
diritti dei primi. Piuttosto metterebbe mano alla giungla di contratti che negli anni ha generato il mare di
precariato in cui sono immersi i secondi. Si porrebbe, in sostanza, il problema
di estendere le tutele a chi oggi non ce
l'ha, non a livellarle verso il basso, istituzionalizzando nuove forme di
discriminazione su base generazionale.
Che
c'entra il volersi occupare di "Marta", che "non ha la
possibilità di avere il diritto alla maternità",
col voler togliere diritti a
"Francesca", che invece quel diritto ce l'ha insieme all'altro di
poter ricorrere contro un licenziamento senza giusta causa? Ma soprattutto, qual è il modello di società che si
prospetta alle "Marta" d'Italia? Quello in cui chi è giovane e
precario oggi sarà un vecchio povero domani, che per giunta dovrà
"guadagnarsi" con l'anzianità di servizio (di servigi?) l'accesso al
godimento di diritti fondamentali?
C'è una Costituzione, tuttora vigente mi sembra, che all'art. 3 sancisce: "Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
(...)". Poi dice anche che la Repubblica
ha il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, (...)".
Ecco, "pari dignità" e
"rimozione degli ostacoli". Esattamente
il contrario di ciò che il governo sta prospettando.
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