da: Il Fatto Quotidiano -19
agosto 2014
Ormai da tempo immemorabile, non appena si
ventila l’ipotesi di riformare la giustizia, si varano subito norme per
riformare i giudici: correnti, carriere, responsabilità civile o disciplinare,
Csm. E, non appena i detenuti superano il 150% dei posti cella, s’approntano
leggi svuotacarceri per farne uscire un po’. Poi è arrivato Renzi. E chi si è
bevuto la favola del Rottamatore s’è illuso che la musica cambiasse Per qualche
minuto, non di più: il tempo di vederlo salire al Quirinale col nome di
Gratteri alla Giustizia e tornare indietro con quello di Orlando. A quel punto
doveva essere chiaro a tutti che la riforma della giustizia – quella vera, che
dovrebbe tagliare alla fonte il numero dei processi penali e civili, snellirne
l’iter per abbreviarne la durata e punire severamente i delitti che ci hanno
portati alla bancarotta – non avrebbe mai visto la luce. Invece i boccaloni han
continuato a cascarci, grazie anche alle paginate di fuffa giornalistica
intitolate “Così cambierà la Giustizia”, quando è chiaro a tutti che non
cambierà una mazza.
L’epocale Riforma, annunciata da Renzi
entro e non oltre fine luglio, poi ridotta a 12 “linee guida” – una serie di
pensierini da terza elementare o da letterina a Babbo Natale da discutere in
Rete – è stata spostata entro e non oltre il 20 agosto (a proposito, è domani:
novità?). E, se abortirà, non è detto che sia una
disgrazia. Intanto perché
sarebbe affidata alla classe politica più stupida e incompetente della terra. E
poi perché soggiace al diritto di veto del noto pregiudicato, secondo il lodo
Renzi che ricorda tanto il Comma 22: le riforme costituzionale ed elettorale si
fanno con chi ci sta (cioè B.), mentre invece sulla giustizia bisogna ascoltare
l’opposizione (cioè B.).
L’altro ieri Piercamillo Davigo ha spiegato
che le 12 linee guida “si occupano di cose inutili” perché “contengono un
errore di fondo: si vuole fissare ancora una volta la durata massima di un
processo, anziché cercare di ridurre il numero dei processi. Occorre
disincentivare il ricorso ai tribunali. Chi ha torto deve pagare, non
costringere chi ha ragione a fargli causa. Deve sapere che se finirà davanti a
un giudice e questi capirà che ha torto, si prenderà una condanna ancora più
pesante. Non serve una rivoluzione, bisogna partire da pochi principi che
avranno ricadute a lungo termine”. Idem per le carceri: “L’Italia, rispetto agli
altri Paesi europei e agli Usa, ha il numero di carcerati più basso rispetto
alla popolazione, ma le carceri scoppiano. Per l’insipienza della classe
politica, però, si andrà a svuotarle di nuovo. Le soluzioni sono altre:
costruire nuove carceri o limitare i reati per cui la pena si sconta in
carcere”.
Nelle stesse ore Enrico Costa del Ncd
rilanciava la boiata del “processo breve” (cioè della legge che ammazza i
processi se non finiscono entro e non oltre la data fissata dal legislatore
cretino). E Donatella Ferranti del Pd salmodiava su Repubblica sulla necessità
di assicurare la “durata ragionevole ai processi” per “allinearci con gli altri
paesi europei”. Senza naturalmente spiegare quale ragionevole durata potrà mai
garantire un Paese dove ogni anno 8 mila magistrati si vedono piovere addosso
6-7 milioni di nuovi processi fra civili e penali, da celebrare in tre gradi di
giudizio, con la collaborazione straordinaria di 250 mila avvocati che nel 2024
saranno 400 mila. Intanto i politici cretini, a furia di varare inutili
“pacchetti sicurezza” e di inventare reati assurdi tipo la clandestinità, il
porto abusivo di bombolette di vernice spray e – ultimo nato – l’istigazione
all’anoressia, convincevano gl’italiani che i delinquentelli di strada sono più
pericolosi di bancarottieri, corrotti, corruttori, concussori, evasori fiscali
e falsificatori di bilanci.
Finché i governi erano composti da nutrite
delegazioni di queste categorie criminali, si poteva capirli: sapevano quel che
facevano. Ora che non è più così, delle due l’una: o non sanno quello che
fanno, oppure fanno quello che ancora non sappiamo.
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