domenica 28 settembre 2014

D’Alema: "Sull’art. 18 Renzi sbaglia. E sulle riforme è istruito da Verdini"



L’opposizione di Bersani e D’Alema, gente che sta in politica da prima di Berlusconi e che ha avuto tempo e modo, rivestendo ruoli di ministro e presidente del consiglio, di cambiare il paese ma non lo ha fatto, rafforza Renzi. Lo scontro non esiste perché l’”uomo solo al comando” Marc’Antonio Matteo Renzi ha la maggioranza e la minoranza si dovrà adeguare.
Serve un’opposizione interna “vergine”, con capacità mentale e comunicazionale. Civati ha in parte queste qualità ma dovrebbe passare molto tempo in tv come Renzi per “bucare” gli italiani. E, comunque, Civati è furbetto. Non meno di Renzi….Ma, proprio per questo, è l’unico che può avere credibilità.
D’Alema, come altre volte gli è successo, osserva acutamente (le considerazioni sul perché Renzi stia spingendo lo scontro sono centrate, del resto: sono evidenti agli immuni al “fascino seduttivo” di Matteo) ma ciò che sostiene poco importa all’opinione pubblica, perché viene da uno di quelli considerati ”la vecchia politica che non ha fatto nulla, che ha contribuito allo sfascio attuale”. E poi…l’intelligenza si compone di due specie: la capacità di comprendere e la capacità di comportarsi, cioè di decidere e scegliere in ragione di ciò che si è capito.
D’Alema avrà anche (non sempre) la capacità di capire ma, contrariamente a ciò che può pensare il soggetto in questione, non è che primeggi nell’intelligenza comportamentale. Quanto meno, la storia politica italiana – a oggi - dimostra questo. Con ciò, lo ritengo ancora il più attrezzato per fare il ministro degli esteri. A Roma o a Bruxelles.

da: Il Corriere della Sera – di Dario De Vico
L’ex premier: è in difficoltà con Bruxelles e cerca di dare un segnale per tranquillizzare i conservatori. L’unica vecchia guardia con cui parla è rappresentata da Berlusconi»

«Renzi è in evidente difficoltà nei rapporti con Bruxelles. E sull’articolo 18 è in atto un’operazione politico-ideologica che non corrisponde a nessuna urgenza. Non esiste un’emergenza legata alla
rigidità del mercato del lavoro. C’è persino il sospetto che si cerchi uno scontro con il sindacato e una rottura con una parte del Pd per lanciare un messaggio politico all’Europa e risultare così affidabile a quelle forze conservatrici che restano saldamente dominanti. Spero che Renzi si renda conto che una frattura del maggior partito di governo non sarebbe un messaggio rassicurante. Se vuole, è possibile trovare un accordo ragionevole sugli interventi sul mercato del lavoro». Massimo D’Alema dopo un lungo periodo di silenzio ha deciso di far sentire di nuovo la sua voce nel vivo della battaglia sull’articolo 18. E pensa che l’agenda del governo dovrebbe privilegiare il tema della crescita.

Quando il Parlamento discuteva del Senato gli oppositori di Renzi sostenevano che la priorità fosse il lavoro, ora si discute di Jobs act e il tema diventa un altro. Giochiamo a rimpiattino?
«No, sono favorevole alle riforme elettorali e costituzionali, le ritengo urgenti per il Paese. Purtroppo è stata fatta una brutta legge elettorale che somiglia enormemente a quella di prima. Per quanto riguarda il Senato, vi è un evidente contrasto tra la rilevanza dei compiti assegnati a quell’assemblea e una legittimazione popolare affidata alla nomina regionale. Non ho mai pensato che le riforme costituzionali non siano importanti, ho riserve sulle soluzioni escogitate».

Comunque dopo Bersani arriva anche lei. La vecchia guardia della sinistra unita contro il premier.
«Senta, l’unica vecchia guardia con cui Renzi interloquisce è quella rappresentata dal centro-destra di Berlusconi e Verdini. Al Pd vengono poi imposte, con il metodo del centralismo democratico, le scelte maturate in quegli incontri privati. Gramsci nei Quaderni scriveva che i giovani devono inevitabilmente confrontarsi con la generazione più adulta, ma può capitare che i giovani di una parte si facciano istruire dagli anziani della parte avversa. Mi pare che qualcosa di simile stia accadendo nel nostro Paese».

Torniamo a Bruxelles. Cosa sta sottovalutando Renzi?
«L’Europa doveva “cambiare verso”, ma non sta andando nel verso che i progressisti auspicavano. Anzi. I popolari hanno una decina di eurodeputati in più, ma in Commissione hanno fatto l’en plein. La Merkel ha ottenuto le presidenze della Commissione, del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo. E ha pagato un prezzo modesto ai socialisti, nominando il francese Moscovici agli Affari economico-sociali, ma di fatto sotto il controllo di un super-falco come Katainen. I conservatori hanno 14 commissari, i liberali 5 e i socialisti 8. Insomma, il predominio conservatore è impressionante. Temo che tutto ciò non potrà non avere effetti sulla politica dell’Unione, tanto è vero che c’è grande malcontento nel gruppo socialista a Bruxelles».

I socialdemocratici tedeschi però sono al governo con la Merkel e non riescono a farle cambiare verso.
«Ci sono anche delle responsabilità dell’Spd, ma la Merkel si è mossa da leader europea, non si è preoccupata del peso del portafoglio assegnato al commissario tedesco. Ha piazzato uomini di peso nei posti-chiave, i socialisti invece hanno ragionato in un’ottica di prestigio nei singoli Paesi. Lo ha fatto anche Renzi, che ora, per venire fuori dall’impasse e ottenere concessioni dall’Europa, ha deciso di puntare su una questione che è chiaramente ininfluente rispetto agli ostacoli alla ripresa economica, e cioè l’articolo 18».

Ma anche la Bce ci chiede di riformare il mercato del lavoro. Il presidente Draghi l’ha ripetuto più volte.
«Mario Draghi è sotto attacco da parte dei tedeschi e considero la cosa allarmante. È una conferma dell’offensiva conservatrice in Europa. Se si arriva persino a contestare il presidente della Bce...».

Lei ci crede al piano da 300 miliardi che la nuova commissione Juncker dovrebbe varare ormai nel 2015?
«Finora è una nebulosa, bisognerà capire e controllare su quali settori punteranno gli investimenti. Questo è il centro dello scontro politico in Europa, altro che articolo 18. E teniamo conto che, nel merito, la riforma Fornero ha già sdrammatizzato il problema. Oggi, il contenzioso tra datori di lavoro e dipendenti licenziati è risolto in sede extragiudiziale per larga parte dei casi. Il ricorso al reintegro si è ridotto enormemente, ma è stata mantenuta l’ipotesi del reintegro in caso di grave illegittimità del licenziamento. È il minimo indispensabile. Qui si tratta della tutela dei diritti delle persone e non della difesa delle rigidità. Se si toglie al lavoratore persino la garanzia del reintegro in caso di grave illegittimità si ristabilisce all’interno del luogo di lavoro un rapporto gerarchico basato su paura e subalternità. Una forza di sinistra non può accettarlo».

Lo scontro Renzi-Camusso non riprende il duello che divise lei e Cofferati?
«La vera discussione con il sindacato non fu sull’articolo 18 ma sulla centralizzazione del meccanismo contrattuale, che era arretrata. Sostenevo il decentramento della contrattazione in modo che aderisse meglio all’economia reale. A Cofferati obiettavo che i sindacati negoziavano a Roma un contratto nazionale che poi in una metà del Paese era disatteso. Io sollevavo un problema vero».

Non crede che la vecchia guardia del Pd da allora eviti di scontrarsi con la Cgil per paura di prenderle?
«Non scherziamo. Noi abbiamo innovato radicalmente il mercato del lavoro. Abbiamo proceduto in maniera coraggiosa e radicale, con forme di flessibilità che col tempo si sono rivelate persino eccessive. Questi interventi avrebbero dovuto essere affiancati da innovazioni anche nel campo del welfare e della formazione permanente dei lavoratori: purtroppo è avvenuto solo in parte. E ne hanno fatto le spese tanti giovani».

Ha da avanzare una proposta di mediazione?
«Si può ancora intervenire con misure limitate per togliere alcuni fattori di rigidità, come del resto ha detto Gianni Cuperlo. Si può pensare ad allungare il periodo di prova e a ridurre l’indennizzo economico oggi troppo pesante per le imprese. Contestualmente però occorre discutere anche degli ammortizzatori sociali. Certo, sono favorevole al modello danese, ma quanto costa? Dovendo impostare il governo una legge di Stabilità in nome del rigore, come finanzierà gli ammortizzatori sociali? Quali sono le poste di bilancio? Lo dico perché non sono un ideologo ma un uomo di governo».

Lei in merito alla nomina di Mr. Pesc ha sostenuto che Renzi le ha mentito. Camusso poi lo ha definito thatcheriano. Da Firenze è arrivato il diavolo?
«In questa vicenda non ho mai detto nulla di personale e nulla, ovviamente, sui rapporti intercorsi tra me e il presidente del Consiglio. Ho il senso delle istituzioni».

La avverto che comunque quest’intervista sarà etichettata dai renziani come «rosicona» a seguito della mancata sua nomina in Europa. Le crea problemi?
«Le scelte europee rientravano nelle prerogative di Renzi. Se non ci fosse stata la vicenda dell’articolo 18 non sarei intervenuto. L’argomento della vendetta postuma è privo di riscontro. E penso che sia arrivata l’ora di smettere di avallare la tecnica dell’insulto come metodo permanente di lotta politica, anziché discutere del merito dei problemi».

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