da: La Stampa
Dice il nostro premier che il suo governo
va giudicato fra 1000 giorni, anziché dopo i primi 200, quanti ne sono passati
dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Ha ovviamente ragione, se si riferisce al
corpo elettorale, che potrà esprimersi solo al momento del voto (a proposito:
quando si voterà? La legislatura non scade fra 1000 giorni, bensì un anno più
in là…). Ma non ha ragione se si riferisce all’opinione pubblica, che ha tutto
il diritto di discutere e giudicare il suo governo «passo dopo passo». Un
governo si promuove o si boccia con le elezioni politiche, ma si discute e si
giudica giorno per giorno.
Sette mesi non sono tanti, ma non sono
neppure pochissimi per valutare l’azione di un governo. Dopotutto, la domanda
che quasi tutti ci facciamo è una sola: Renzi ce la farà a «cambiare verso»
all’Italia, interrompendo un regime di stagnazione e recessione che dura da
troppo tempo?
E' il caso di notare, per cominciare, che un
successo di Renzi se lo augurano non solo i renziani, ma anche buona parte
degli italiani che non hanno votato Pd nel 2013 (alle Politiche), o non hanno
votato Renzi nel 2014 (alle Europee). Nessun governo precedente, della prima o
della seconda Repubblica, ha mai goduto di aspettative così diffuse e
trasversali agli schieramenti. Nessun
premier ha beneficiato di un’apertura di
credito così ampia e convinta. Nessun governo, tranne forse il governo di
solidarietà nazionale ai tempi del terrorismo, ha mai goduto di un appoggio
esterno benevolo come quello che Forza Italia sta fornendo al governo Renzi.
Altroché gufi, nessun premier ha avuto mai così tanti tifosi!
Dunque le possibilità di Renzi, sulla
carta, sono decisamente buone.
Nonostante tutte queste condizioni
favorevoli, nelle ultime settimane è cominciato a serpeggiare il dubbio che
Renzi possa non farcela o, stando ai critici più severi, che la sua volontà di
cambiare l’Italia sia più gattopardesca di quel che era sembrata all’inizio.
Come mai?
Alcune ragioni sono evidenti: l’inflazione
degli annunci (la cosiddetta «annuncite»), il mancato rispetto delle scadenze
spavaldamente fissate per le varie riforme epocali (legge elettorale, lavoro,
fisco, giustizia, pubblica amministrazione), la litigiosità dei parlamentari
del Pd, la natura pasticciata di alcuni provvedimenti, l’incertezza in materia
di tasse, compreso il tormentone del rinnovo del bonus di 80 euro, per il quale
ancora oggi nessuna legge stabilisce le coperture nel 2015.
C’è una ragione, tuttavia, che a me pare
più influente di tutte le altre. Da qualche settimana anche gli osservatori più
benevoli cominciano a sospettare che Renzi abbia completamente sbagliato le
priorità e, soprattutto, che ormai sia troppo tardi per recuperare. Il
ragionamento, in breve, è questo: se vuoi far ripartire la crescita, come tutti
i politici affermano di voler fare, devi prendere alcune decisioni impopolari
in campo economico-sociale (tagli di spesa pubblica, liberalizzazione del
mercato del lavoro); ma quelle decisioni le puoi prendere solo quando il tuo
consenso è al massimo, ovvero durante i primi mesi di governo (la cosiddetta
luna di miele); e se lasci passare quella finestra di opportunità, tutto
diventa più difficile, se non impossibile.
Ora il punto è che la luna di miele pare
stia già tramontando. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato, condotto da Demos
& Pi e presentato da Ilvo Diamanti su Repubblica, fra giugno e settembre il
Pd ha perso 4 punti, ma la popolarità di Renzi è scesa di ben 14 punti, ossia
10 punti di più. E’ vero che la rilevazione di giugno era drogata dal successo
alle Europee, ma resta il fatto che il consenso di Renzi risulta in diminuzione
anche rispetto a marzo e a maggio.
La fine della luna di miele, un fatto
fisiologico dopo 200 giorni di governo, sembra dare ragione a quanti, da mesi,
non si stancano di ripetere che è stato un grandissimo errore dare la
precedenza, mediatica e parlamentare, al cambiamento della legge elettorale
della Costituzione, e rimandare tutte le riforme economico-sociali più
importanti, a partire dal Jobs Act. Il cambiamento delle regole, infatti,
produrrà effetti solo fra qualche anno, e comunque non incontra alcun serio
ostacolo da parte dell’opinione pubblica, che ha ben altre priorità. Alcune
riforme economico-sociali, invece, possono produrre effetti molto più
rapidamente, ma richiedono il massimo di consenso dell’opinione pubblica, per
vincere le inevitabili resistenze delle mille lobby che temono di perdere i
loro privilegi. Secondo questi critici Renzi doveva dare assoluta priorità al
mercato del lavoro, ai tagli di spesa e alla riduzione del costo del lavoro per
le imprese, lasciando che le riforme delle regole elettorali e istituzionali
facessero tranquillamente il loro corso parlamentare, senza ritardare le assai
più urgenti e vitali riforme economico-sociali.
Il fatto curioso è che questa mancanza di
coraggio (ma forse sarebbe meglio dire: questa mancanza di tempismo) in campo
economico-sociale si sta già ritorcendo contro il governo. Renzi ha deciso da
tempo di non rispettare l’obiettivo del 2.6% di deficit che egli stesso aveva
imprudentemente fissato a primavera, e si appresta a negoziare con l’Europa
un’interpretazione flessibile degli impegni assunti. Ma le sue possibilità di
riuscire nell’intento, e soprattutto di evitare la reazione negativa dei
mercati di fronte all’ennesimo ritardo nel percorso di risanamento dei conti
pubblici, sono state enormemente ridotte precisamente dalla scelta, fatta a
marzo, di posticipare le riforme difficili, che sono quelle economico-sociali,
e di trastullarsi con quelle facili, legge elettorale e svuotamento del Senato,
il cui percorso parlamentare è garantito dall’accordo con Silvio Berlusconi.
Si potrebbe pensare, o meglio sperare, che
le «riforme strutturali», a partire da quella del mercato del lavoro (cui
tuttora mancano i tre tasselli fondamentali: codice semplificato, contratto a
tutele crescenti, ammortizzatori sociali universali), siano solo un’ossessione
degli studiosi, i detestati «esperti» da cui il nostro suscettibile premier
«non accetta lezioni». Sfortunatamente non è così. I mercati finanziari si sono
già accorti della nostra lentezza, anche se i politici preferiscono non vedere
il segnale che essi ci mandano. Eppure quel segnale è chiaro e forte: fra
gennaio e oggi la diminuzione dello spread, che ha coinvolto un po’ tutti i
Paesi dell’eurozona, è stata in Italia minore che negli altri Pigs, ossia
Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Segno che i mercati percepiscono la
differenza fra le velocità con cui i Paesi più indebitati ristrutturano le loro
economie.
In concreto, tutto ciò significa che aver
rimandato le riforme che contano potrebbe costarci caro. Subito, sotto forma di
minore disponibilità dell’Europa a concedere sconti ai soliti inaffidabili
italiani. In prospettiva, sotto forma di rischio sui mercati finanziari: se
un’altra crisi dovesse scuotere l’euro, l’Italia non ne sarebbe al riparo,
perché troppo poco ha fatto e sta facendo per fermare il proprio declino.
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