da: Il Fatto Quotidiano
“In Italia c’è una bandiera che sventola
forte nel vento: questa bandiera è Matteo Renzi, dobbiamo riconoscerlo… Poi c’è
una bandiera a mezz’asta che si chiama Berlusconi: vediamo di utilizzarla
ancora, se è possibile”.
Povero Cainano, va capito. A lui i giudici
di sorveglianza, in cambio dei servizi sociali, hanno imposto varie
prescrizioni, fra l’altro molto diverse da quelle cui era abituato: coprifuoco
alle ore 23, obbligo di dimora ad Arcore o a Palazzo Grazioli, niente attacchi
ai magistrati e soprattutto divieto di frequentare pregiudicati. Il che gli
impedisce di andare a trovare Dell’Utri in carcere e di incontrare i tre quarti
del suo partito. Renzi invece, almeno per ora, non ha di questi problemi.
Infatti ha ricevuto il pregiudicato B. una volta al Nazareno e tre volte a
Palazzo Chigi, molte meno comunque di Denis Verdini, che ieri ha collezionato
l’ennesimo rinvio a giudizio (illecito finanziamento), dopo quello estivo per
associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta.
Un amore. Ha voglia Bersani a chiedere di
essere ascoltato anche lui: ha l’handicap insormontabile di essere incensurato.
“Vecchia guardia” da rottamare. B. & Verdini invece no. Da quando è salito
a Palazzo Chigi, il giovin Matteo s’è fatto un sacco di nemici, sfanculando nell’ordine:
i costituzionalisti, i
senatori pidini dissidenti, il Parlamento tutto, i
giornali italiani critici (praticamente uno), l’Economist, la Rai al gran
completo, le autorità europee (ma solo a parole), il Forum di Cernobbio,
Confindustria, i ministri Orlando e Giannini, l’Associazione nazionale
magistrati, i sindacati, la minoranza del Pd, ovviamente i 5Stelle e molti
altri gufi lumache avvoltoi rosi-coni conservatori per cui manca lo spazio. Gli
unici con cui va d’amore e d’accordo sono Silvio & Denis. Il fatto di poter
frequentare pregiudicati per lui non è un’opportunità: è un obbligo. E, già che
c’è, lo estende anche agli indagati.
Nel giro di sei mesi quello che si
atteggiava a ragazzo pulito, lontano da certi brutti giri, s’è avvolto in una
nuvola nera di habitué di procure e tribunali. Barracciu, Del Basso de Caro, De
Filippo e Bubbico al governo. Bonaccini candidato in Emilia Romagna. Rossi
ricandidato in Toscana. De Luca candidato in Campania. D’Alfonso eletto in
Abruzzo. Soru e Caputo paracadutati al Parlamento europeo. Faraone e poi
Carbone in segreteria. Descalzi all’Eni. Papà Tiziano in famiglia.
Prossimamente Donato Bruno alla Consulta. È la famosa “svolta garantista”: chi
non ha ancora una condanna definitiva è illibato come giglio di campo.
Eppure lo Statuto del Pd, sempreché Renzi lo conosca (lo Statuto e il Pd), dice tutt’altro: “Condizioni ostative alla
candidatura e obbligo di dimissioni. Le
donne e gli uomini del Partito democratico si impegnano a non candidare, ad
ogni tipo di elezione – anche di carattere interno al partito – coloro nei cui
confronti… sia stato: a) emesso decreto che dispone il giudizio; b) emessa
misura cautelare personale non annullata in sede di impugnazione; c) emessa
sentenza di condanna, ancorché non definitiva, ovvero a seguito di
patteggiamento; per un reato di mafia, di criminalità organizzata o contro la
libertà personale e la personalità individuale; per un delitto per cui sia
previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; per sfruttamento della
prostituzione; per omicidio colposo derivante dall’inosservanza della normativa
in materia di sicurezza sul lavoro…” o “sia stata emessa sentenza di condanna,
ancorché non definitiva, ovvero patteggiamento, per corruzione e concussione”.
Appena finirono dentro le cricche di Expo & Mose, il renzianissimo
sottosegretario Luca Lotti annunciò:
“Le parole di Matteo contro la corruzione sono un monito, ora diamoci da fare.
La pulizia deve cominciare. Ogni strumento va affinato, corretto, messo a
punto: il codice etico e lo Statuto sono da cambiare e soprattutto attuare”.
Matteo aveva appena promesso il “Daspo” per i corrotti. Ma tutti avevano
equivocato. Era solo l’acronimo di uno straziante
appello a Silvio: dai sposami.
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