giovedì 18 settembre 2014

Scozia, referendum “by by Londra”: cosa cambierà se vincono i “sì”




Se la Scozia diventa indipendente
Dieci questioni aperte, dalla moneta al petrolio, se al referendum del 18 settembre vincessero i Sì
di Francesco Cancellato

«La Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?». Questo il quesito che il prossimo 18 settembre si troveranno di fronte i cittadini scozzesi - a differenza di quanto accade normalmente, pure i sedicenni e gli stranieri residenti - che si recheranno alle urne per votare al referendum che, dopo 307 anni, potrebbe separare le due colonne portanti del Regno Unito così come l’abbiamo conosciuto. Fino a qualche settimana fa, i sondaggi davano al fronte del No una vittoria ampia e scontata. Ma la situazione si è velocemente capovolta: l’ultima rilevazione effettuata da Yougov.com, la sera del 6 settembre, ha mostrato un clamoroso sorpasso - con i Sì al 51% - che ha fatto venire i brividi lungo la schiena a David Cameron, così come ai leader degli altri due principali partiti britannici, il laburista Miliband e il liberal-democratico Clegg, entrambi contrari all’indipendenza scozzese.

In attesa di sapere come finirà, abbiamo provato a immaginare come
potrebbero cambiare le cose se il 19 settembre la Scozia si sveglierà indipendente. Un esercizio, questo, che in molti stanno già facendo, oltre Manica. Utile per capire, al netto delle strumentalizzazioni e delle opinioni un tanto al chilo, cosa significhi davvero dar vita concretamente a una secessione tra Stati.

La bandiera del Regno Unito, la celeberrima Union Jack, combina le bandiere dei tre santi patroni di Inghilterra, Irlanda e Scozia: rispettivamente, la croce rossa in campo bianco di San Giorgio e dell’Inghilterra, la croce rossa (a x) in campo bianco di San Patrizio e dell’Irlanda e la croce bianca (anch’essa a x) in campo blu di Sant’Andrea e della Scozia.
Primo dato: il Galles non ha il privilegio di vedere la bandiera del suo patrono – San Davide di Menevia – nell’Union Jack, motivo per cui sono proprio i gallesi i primi sostenitori di un redesign complessivo della bandiera. Per la cronaca, la bandiera in questione è composta da una croce gialla in campo nero. La più ovvia delle modifiche all’Union Jack potrebbe quindi essere quella di sostituire il blu scozzese con il nero gallese. C’è un problema, tuttavia: «La Union Jack in campo nero è una bandiera usata dai gruppi neofascisti britannici – ha dichiarato al New York Times Graham Bartram, il principale vessillologo del Flag Insitute britannico – Sarebbe come se diventassero realtà tutti quei film di fantascienza distopici in cui i soldati in uniforme nera salutano una bandiera nera». Difficile, insomma, che si realizzi questo scenario.
Qualcun altro ha proposto di inserire nella bandiera la croce gialla, mantenendo il tutto in campo bianco. Qualcun altro crede sia opportuno togliere il blu e inserire – in uno dei quadranti o al centro – il dragone gallese. Altri pensano che le rimanenti croci rosse possano ben figurare su un campo metà bianco e metà verde, ispirato all’attuale bandiera del Galles. Altri pensano che anche nel caso di indipendenza, la Regina possa comunque rimanere il Capo di Stato della Scozia, salvaguardando quindi l’attuale Union Jack in campo blu. Tra mille dubbi e proposte, l’unica certezza sarà quella della bandiera della Scozia, che potrà finalmente veder sventolare ovunque la sua adorata croce di Sant’Andrea.

La questione della forma di governo che sceglierà il nuovo stato scozzese, se vinceranno i Sì, non è di poco conto e affonda le sue radici nella storia della monarchia britannica e, in particolare, in quel celeberrimo Act of Union del 1707 che unì la corona scozzese con quella inglese, non senza successivi spargimenti di sangue. Cinematografia vorrebbe – da Braveheart a Stone of Destiny - lo scisma delle corone e un nuovo re di Scozia seduto sulla Stone of Scone, il sedile di pietra del trono oggi conservata nel castello di Edimburgo, ma che -fino a oggi - è tornata a Westminster per ogni incoronazione.
Probabilmente non andrà così: Elisabetta rimarrà sovrana di Scozia anche dopo l’indipendenza. Molto banalmente, gli scozzesi sono molto legati a questa regina, che ha passato gran parte della sua infanzia oltre il Vallo – e che nonostante il suo ruolo non ha preso alcuna posizione contro l’indipendenza scozzese - e anche lo stesso Principe Carlo, quando è in Scozia, preferisce farsi chiamare con il suo titolo scozzese di Duca di Rothesay piuttosto che con l’usuale appellativo di Principe di Galles.
A breve nessuna novità è all’orizzonte, quindi: anche se la Gran Bretagna diventasse un po’ più piccola, il Regno dovrebbe comunque rimanere Unito. Nel breve,  dicevamo: Salmond ha infatti recentemente dichiarato che «la Scozia rimarrà una monarchia costituzionale fin quando gli scozzesi lo vorranno». Tradotto: le cose potrebbero cambiare nel momento in cui un nuovo sovrano dovrebbe ascendere al trono. A quel punto, si porrebbe un altro dilemma: una nuova monarchia costituzionale scozzese e o una repubblica sul modello di quella irlandese?

Se quella della bandiera è a suo modo una questione di folklore, ben più spinosa è l’affare moneta: se la Scozia diventasse indipendente, che valuta adotterà? Il Guardian, in un suo recente articolo, delinea quattro scenari possibili. Il primo è quello auspicato dal principale promotore del referendum, il leader dello Scottish National Party (Snp) e attuale Primo Ministro scozzese Alex Salmond: in Scozia si continuerà a usare la sterlina, o in un’area monetaria simile all’area euro, o in via “informale” come si usa l’euro in Kosovo.
Due scenari piuttosto difficili, perlomeno allo stato attuale: il Premier britannico David Cameron è nettamente contrario all’Area Sterlina, un po’ per non offrire sponde al fronte degli indipendentisti, un po’ perché preoccupato di dover pagare i costi dell’instabilità successiva all’indipendenza scozzese. Riguardo all’uso informale, invece, perché sarebbe deleterio anche per la Scozia stessa, che sarebbe abbandonata in tempo zero dalle sue banche, che trasferirebbero i loro quartieri generali sotto il Vallo d’Adriano per poter continuare a contare sulla Banca d’Inghilterra come prestatrice di ultima istanza. In quest’ultimo caso, scrive l’Economist, la Scozia si ritroverebbe nella non invidiabile situazione di rimanere senza il controllo sulla sua valuta e senza i benefici dell'appartenenza all'area euro.
Ecco allora la terza e la quarta possibilità: adottare l’euro o una valuta propria. La prima ipotesi, per Salmond e lo Snp potrebbe essere plausibile, ma nel medio periodo, non fosse altro per il fatto che oggi la moneta unica europea è in uno stato di grande difficoltà: «Ha senso arrivare a una festa quando sta finendo?», si chiede ironicamente il Guardian. Altra questione, non da poco: adottasse l’euro, la Scozia si ritroverebbe in un sistema di controlli e di rigidità ancor più stringente del precedente, abbandonando la Banca d’Inghilterra. Rimane la quarta ipotesi, quella di una valuta propria. Probabilmente, sarebbe una moneta piuttosto debole e ed esposta ai venti della speculazione. Buon per l’asfittico export scozzese – il 21% del Pil, la metà del quale diretto verso gli altri Paesi britannici – meno per i conti pubblici e il potere d’acquisto scozzese. Ci sarebbe da ballare, insomma, ma secondo l’Economist quest’ultima, valutati i pro e i contro - potrebbe essere la soluzione migliore.

Secondo il Guardian, il petrolio è il fiore all'occhiello della Scozia indipendente: dal 1979 a oggi, dei 60 miliardi di barili estratti nel Regno Unito oltre i due terzi provengono dal mare del Nord. Una percentuale che nel corso degli ultimi anni è cresciuta: secondo l’Istituto Nazionale della Ricerca Economica e Sociale inglese (Niesr), in caso d’indipendenza, alla Scozia andrebbe il 91% dei ricavi derivanti dalla vendita dell’oro nero. Basterebbe questo a spiegare perché la Scozia vorrebbe l’indipedenza, insomma.
Le cose, tuttavia, sono un po’ più complesse: è vero che solitamente le rendite seguono i destini dello Stato da cui provengono, ma è anche vero che finora gli investimenti su pozzi e piattaforme sono stati fatti da realtà come la Bp e da investimenti del Governo britannico, quindi è possibile che la questione diventi merce di negoziazione insieme a molte altre spinose questioni.
Non bastasse, c’è un successivo problema: i ricavi in questi ultimi anni sono crollati, sia a causa dell’andamento del prezzo del petrolio, in discesa, sia in relazione ad alcune chiusure non previste. Se nel 2008-09 il petrolio scozzese ha fruttato 12,4 miliardi di sterline, nel 2012-13 i ricavi sono scesi a 6,5 miliardi. Secondo l’Office of Budget Responsability, osservatorio fiscale indipendente, anche nel migliore degli scenari possibili – prezzi in crescita, produzione che riparte – nel 2017-18 i ricavi petroliferi dovrebbero assestarsi attorno ai 3,5 miliardi di sterline. Ben al di sotto delle previsioni dell’Snp, che per lo stesso periodo aveva stimato addirittura una crescita a 7,3 miliardi.

A quanto pare, sì ed è uno dei punti più controversi del dibattito referendario. Oggi, i soldati britannici nati in Scozia sono più o meno il 30 per cento. E ci sono anche un bel po' di battaglioni di origine territoriale scozzese. Secondo il Ministro della Difesa di Sua Maestà Philip Hammond l’esercito britannico è un meccanismo talmente integrato e sofisticato che dividerlo «come una barretta di cioccolato» è praticamente impossibile. 
Facile o meno, lo Snp sta già pensando a come organizzare il proprio nuovo esercito. Secondo Salmond sarà un esercito molto leggero e si basera su una base navale, una base aerea e una brigata mobile. Angus Robertson, il responsabile difesa dello Snp ha visitato Norvegia e Danimarca per studiare il loro sistema di difesa, il che dà un’idea che esercito abbiano in mente a Edimburgo. Innanzitutto, sarà un esercito poco costoso: Danimarca e Norvegia, infatti, spendono per la difesa attorno all’1,5% del Pil, il contributo che dà attualmente la Scozia all’esercito britannico è pari al 3,3%. Soprattutto, sarà un esercito che guarda a nord e alle questioni energetico-minerarie dell’Artico e dell’alto Atlantico, così come stanno facendo oggi la Russia e la stessa Norvegia.
La più delicata di tutte, tuttavia, è la vicenda relativa ai sottomarini nucleari Trident dell’esercito britannico, ormeggiati in Scozia presso la base militare HMNB Clyde, una delle tre basi operative della Royal Navy in Scozia. Salmond, su questo punto è stato molto chiaro e la maggior parte degli scozzesi concorda con lui: la Scozia sarà un Paese nuke free e quindi i Trident se ne devono andare. 
Per chi non è avvezzo di problemi militari potrebbe sembrare un problema da poco: morto un porto, i Trident ne troveranno un altro, in Inghilterra o in Galles. Non lo è, invece. Secondo Hammond un’eventuale rilocalizzazione dei sottomarini nucleari potrebbe arrivare a costare «miliardi di sterline, forse decine di miliardi». Allo stesso modo, anche trovare il luogo in cui mettere le nuove basi non sarebbe questione da poco, visti i disagi e i rischi che la presenza di armi nucleari comporta per la comunità che li ospita. È soprattutto questo tema che ha acceso oltremisura la polemica elettorale tra i politici pro e contro l’indipendenza: l’ex segretario della Nato George Robertson (scozzese, peraltro) ha definito «cataclismatica» per la sicurezza occidentale questa eventualità, affermando anche che sarebbe impensabile che la Nato accogliesse tra le sue fila – cosa a cui Salmond tiene molto - un Paese che mette a rischio la strategia di deterrenza nucleare della seconda potenza militare dell’alleanza. Tuttavia, per il momento, nessun tipo di opzione alternativa è stata contemplata, o perlomeno pubblicamente discussa, per non mostrare alcuna insicurezza in merito alla vittoria dei No il 18 settembre.  

Tra le tante questioni non di poco conto che i negoziati tra la nuova Scozia indipendente e il Resto del Regno Unito – lo chiama così pure l’Economist – c’è anche quella relativa a dirimere l’entità della nuova contabilità pubblica dei due stati. In soldoni: come si spartirebbero l’attuale debito pubblico? Il Nisr ha provato a fare una simulazione su base censuaria: in tal caso, il debito pubblico del nuovo stato scozzese oscillerebbe tra i 121 e 143 miliardi di sterline. In rapporto al Pil, tra il 73 e l’86%, laddove il debito pubblico del resto del Regno Unito salirà dal 90,6% attuale a una cifra tra il 94 e il 101%.
È probabile, tuttavia, che questo calcolo non basti per arrivare a un’amichevole stretta di mano tra Cameron e Salmond. Quest’ultimo, infatti, potrebbe avanzare ulteriori richieste: ad esempio, potrebbe chiedere che da  tale cifra vengano scomputate tutte le tasse che il Governo del Regno Unito ha raccolto sull’estrazione di petrolio scozzese. Dal canto suo, Cameron potrebbe controbattere ricordando come la Scozia abbia ricevuto da Londra generosi trasferimenti di risorse che hanno contribuito in modo rilevante alla crescita del debito pubblico britannico. Il precedente storico della scissione tra Repubblica Ceca e Slovacchia, che ci hanno messo sette anni per trovare un accordo sulla divisione delle riserve d’oro non è per nulla incoraggiante.

Secondo l’Economist, il principale problema del potenzialmente nascituro stato scozzese sarà quello demografico. In Scozia ci sono solamente 3,2 persone in età da lavoro per ogni pensionato e nel 2037, per l’Ufficio Statistico Nazionale (Ons) saranno soltanto 2,6, laddove nel resto del Regno Unito, invece, le persone in età da lavoro tendono, e tenderanno, ad aumentare. Il motivo è piuttosto semplice: Londra e il resto dell’Inghilterra sono posti verso cui la gente tende a migrare, la Scozia è un Paese da cui i giovani tendono a scappare.
Non solo: oltre che vecchi – o forse proprio perché lo sono – gli scozzesi non sono nemmeno granché in salute. Scrive ancora l’Economist, che in uno studio condotto quest’anno dall’Ons su 404 aree locali, è risultato che otto sui dieci territori con la più bassa aspettativa di vita alla nascita sono scozzesi. A Glasgow, tanto per fare un esempio, le persone hanno una speranza di vivere media di soli 69 anni.  Nella comparazione internazionale, le cose vanno ancora peggio: la qualità della vita scozzese, secondo un altro studio condotto dall’Ocse, è tra le ultime tre d’Europa.
Finora, gli alti costi sanitari e pensionistici scozzesi erano in buona parte coperti dai trasferimenti provenienti da «mamma Londra». Domani, toccherà a Edimburgo provvedere. Salmond pare avere le idee chiare pure su questo tema. Più volte, infatti, si è scagliato contro la scarsa lungimiranza del governo britannico nel non aver pensato a un fondo sovrano che investisse sui mercati finanziari, come invece hanno fatto in Norvegia. Fondo che, probabilmente, vedrebbe la luce in caso di indipendenza. E che, nelle aspettative di Salmond, pagherebbe sanità e pensioni degli scozzesi, oltre che dare le risorse per investire nell’attrazione di giovani talenti sul territorio.

Forse non è l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili, la Scozia, ma il motivo non è da ricercare in ciò che produce, ma in ciò che ne ricava. I numeri possono aiutare a capire perché: è da lì che proviene il 25% dell’energia europea prodotta dal vento e dalle maree e il 10% di quella prodotta dal moto ondoso. Addirittura il 90% dell’energia idroelettrica britannica è scozzese. Tuttavia, questa incredibile produzione non solo non rende nulla o quasi alla Scozia, ma le costa anche parecchio: solo lo scorso anno, 560 milioni di sterline di sussidi e aiuti fiscali, provenienti sia da Endiburgo che da Londra. Probabilmente - paradosso dei paradossi – il sogno di Salmond di coprire l’intero fabbisogno energetico scozzese con le energie rinnovabili entro il 2020 sarà finanziato dai ricavi dalla vendita del petrolio.
I problemi, semmai, sono di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che senza le rinnovabili scozzesi si troverebbero a dover pagare multe piuttosto salate per non aver rispettato l’obiettivo europeo di taglio delle emissioni e di aumento dell’uso di energie rinnovabili entro il 2020 (il cosiddetto obiettivo 20-20-20). Gli inglesi, tuttavia, hanno un’altra carta da giocare: senza gli incentivi alle rinnovabili pagati dai cittadini britannici non scozzesi, le bollette costerebbero ai cittadini scozzesi parecchio di più. Allo stesso modo, tuttavia, il Regno Unito ha scelto la strada dell’energia nucleare – che già ora copre il 18% del fabbisogno britannico - e si appresta a rinnovare insieme a partner franco-cinesi tutto o quasi il parco delle sue ormai vecchie centrali. Pure questo, un affare piuttosto costoso.

In breve: dimenticate il vecchio +44 britannico. Nel caso di vittoria del Sì, per chiamare in Scozia bisognerà digitare +424. Perché questa scelta? Non aspettatevi riferimenti storici o di cabala: semplicemente, perché è simile al vecchio +44, è libero ed è nel blocco dei codici a disposizione degli stati europei.
Relativamente al dominio web, l’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN) ha già formalmente accettato la legittimità del dominio .scot che probabilmente sarà quello designato in caso di indipendenza. Non fosse altro per il fatto che .sc è già il dominio delle Seychelles e .sl è già quello della Sierra Leone.

Se vincessero, probabilmente sì, anche se il referendum scozzese è perfettamente legale, avendo ricevuto l’assenso reale il 7 agosto 2013, laddove non lo sarà il referendum del prossimo 4 novembre – se mai si terrà – sull’indipendenza della Catalogna dalla Spagna e anche un eventuale referendum per l’uscita dall’euro dell’Italia non lo sarebbe, in quanto la Costituzione italiana esclude i trattati internazionali tra le materie potenzialmente oggetto di consultazione referendaria.

Tuttavia è un altro l’aspetto importante da considerare: l’indipendenza così come la vuole Salmond assomiglia molto alla forte devolution promessa in un «patto a tre» dai leader dei tre principali partiti britannici, Cameron, Miliband e Clegg il giorno prima (non a caso) del dibattito televisivo tra i leader referendari scozzesi. È un patto che, di fatto, dà alla Scozia ulteriore autonomia fiscale e legislativa.
In pratica, indipendentemente dal risultato del 18 settembre, i nazionalisti scozzesi hanno già ottenuto una mezza vittoria già solo promuovendo il referendum. Certo, in caso di una vittoria del No rimarrebbero sul tappeto la questione del petrolio e quella del nucleare, ma se la sconfitta degli indipendentisti fosse di misura, come i sondaggi di questi giorni suggeriscono, potrebbe anche essere argomento di ulteriori negoziazioni. In altre parole, la Scozia ha già dimostrato che alzare la voce paga. 

Nessun commento:

Posta un commento