Se
la Scozia diventa indipendente
Dieci
questioni aperte, dalla moneta al petrolio, se al referendum del 18 settembre
vincessero i Sì
di Francesco
Cancellato
«La Scozia dovrebbe essere un Paese
indipendente?». Questo il quesito che il prossimo 18 settembre si troveranno di
fronte i cittadini scozzesi - a differenza di quanto accade normalmente, pure i
sedicenni e gli stranieri residenti - che si recheranno alle urne per votare al
referendum che, dopo 307 anni, potrebbe separare le due colonne portanti del
Regno Unito così come l’abbiamo conosciuto. Fino a qualche settimana fa, i
sondaggi davano al fronte del No una vittoria ampia e scontata. Ma la
situazione si è velocemente capovolta: l’ultima rilevazione
effettuata da Yougov.com, la sera del 6 settembre, ha mostrato un clamoroso
sorpasso - con i Sì al 51% - che ha fatto venire i brividi lungo la schiena a
David Cameron, così come ai leader degli altri due principali partiti
britannici, il laburista Miliband e il liberal-democratico Clegg, entrambi
contrari all’indipendenza scozzese.
In attesa di sapere come finirà, abbiamo
provato a immaginare come
potrebbero
cambiare le cose se il 19 settembre
la Scozia si sveglierà indipendente. Un esercizio, questo, che in molti
stanno già facendo, oltre Manica. Utile per capire, al netto delle strumentalizzazioni
e delle opinioni un tanto al chilo, cosa significhi davvero dar vita
concretamente a una secessione tra Stati.
La bandiera del Regno Unito, la celeberrima
Union Jack, combina le bandiere dei tre santi patroni di Inghilterra, Irlanda e
Scozia: rispettivamente, la croce rossa in campo bianco di San Giorgio e
dell’Inghilterra, la croce rossa (a x) in campo bianco di San Patrizio e
dell’Irlanda e la croce bianca (anch’essa a x) in campo blu di Sant’Andrea e
della Scozia.
Primo dato: il Galles non ha il privilegio
di vedere la bandiera del suo patrono – San Davide di Menevia – nell’Union
Jack, motivo per cui sono proprio i gallesi i primi sostenitori di un redesign
complessivo della bandiera. Per la cronaca, la bandiera in questione è composta
da una croce gialla in campo nero. La più ovvia delle modifiche all’Union Jack
potrebbe quindi essere quella di sostituire il blu scozzese con il nero
gallese. C’è un problema, tuttavia: «La Union Jack in campo nero è una bandiera
usata dai gruppi neofascisti britannici – ha dichiarato al New York Times
Graham Bartram, il principale vessillologo del Flag Insitute britannico –
Sarebbe come se diventassero realtà tutti quei film di fantascienza distopici
in cui i soldati in uniforme nera salutano una bandiera nera». Difficile,
insomma, che si realizzi questo scenario.
Qualcun altro ha proposto di inserire nella
bandiera la croce gialla, mantenendo il tutto in campo bianco. Qualcun altro
crede sia opportuno togliere il blu e inserire – in uno dei quadranti o al
centro – il dragone gallese. Altri pensano che le rimanenti croci rosse possano
ben figurare su un campo metà bianco e metà verde, ispirato all’attuale
bandiera del Galles. Altri pensano che anche nel caso di indipendenza, la Regina
possa comunque rimanere il Capo di Stato della Scozia, salvaguardando quindi
l’attuale Union Jack in campo blu. Tra mille dubbi e proposte, l’unica certezza
sarà quella della bandiera della Scozia, che potrà finalmente veder sventolare
ovunque la sua adorata croce di Sant’Andrea.
La questione della forma di governo che
sceglierà il nuovo stato scozzese, se vinceranno i Sì, non è di poco conto e
affonda le sue radici nella storia della monarchia britannica e, in particolare,
in quel celeberrimo Act of Union del 1707 che unì la corona scozzese con quella
inglese, non senza successivi spargimenti di sangue. Cinematografia vorrebbe –
da Braveheart a Stone of Destiny - lo scisma delle corone e un nuovo re di
Scozia seduto sulla Stone of Scone, il sedile di pietra del trono oggi
conservata nel castello di Edimburgo, ma che -fino a oggi - è tornata a
Westminster per ogni incoronazione.
Probabilmente non andrà così: Elisabetta
rimarrà sovrana di Scozia anche dopo l’indipendenza. Molto banalmente, gli
scozzesi sono molto legati a questa regina, che ha passato gran parte della sua
infanzia oltre il Vallo – e che nonostante il suo ruolo non ha preso alcuna
posizione contro l’indipendenza scozzese - e anche lo stesso Principe Carlo,
quando è in Scozia, preferisce farsi chiamare con il suo titolo scozzese di
Duca di Rothesay piuttosto che con l’usuale appellativo di Principe di Galles.
A breve nessuna novità è all’orizzonte,
quindi: anche se la Gran Bretagna diventasse un po’ più piccola, il Regno
dovrebbe comunque rimanere Unito. Nel breve, dicevamo: Salmond ha infatti
recentemente dichiarato che «la Scozia rimarrà una monarchia costituzionale fin
quando gli scozzesi lo vorranno». Tradotto: le cose potrebbero cambiare nel
momento in cui un nuovo sovrano dovrebbe ascendere al trono. A quel punto, si
porrebbe un altro dilemma: una nuova monarchia costituzionale scozzese e o una
repubblica sul modello di quella irlandese?
Se quella della bandiera è a suo modo una
questione di folklore, ben più spinosa è l’affare moneta: se la Scozia
diventasse indipendente, che valuta adotterà? Il Guardian, in un suo recente
articolo, delinea quattro scenari possibili. Il primo è quello auspicato dal
principale promotore del referendum, il leader dello Scottish National Party
(Snp) e attuale Primo Ministro scozzese Alex Salmond: in Scozia si continuerà a
usare la sterlina, o in un’area monetaria simile all’area euro, o in via
“informale” come si usa l’euro in Kosovo.
Due scenari piuttosto difficili, perlomeno
allo stato attuale: il Premier britannico David Cameron è nettamente contrario
all’Area Sterlina, un po’ per non offrire sponde al fronte degli
indipendentisti, un po’ perché preoccupato di dover pagare i costi
dell’instabilità successiva all’indipendenza scozzese. Riguardo all’uso
informale, invece, perché sarebbe deleterio anche per la Scozia stessa, che
sarebbe abbandonata in tempo zero dalle sue banche, che trasferirebbero i loro
quartieri generali sotto il Vallo d’Adriano per poter continuare a contare
sulla Banca d’Inghilterra come prestatrice di ultima istanza. In quest’ultimo
caso, scrive l’Economist, la Scozia si ritroverebbe nella non invidiabile
situazione di rimanere senza il controllo sulla sua valuta e senza i benefici
dell'appartenenza all'area euro.
Ecco allora la terza e la quarta
possibilità: adottare l’euro o una valuta propria. La prima ipotesi, per
Salmond e lo Snp potrebbe essere plausibile, ma nel medio periodo, non fosse
altro per il fatto che oggi la moneta unica europea è in uno stato di grande
difficoltà: «Ha senso arrivare a una festa quando sta finendo?», si chiede ironicamente
il Guardian. Altra questione, non da poco: adottasse l’euro, la Scozia si
ritroverebbe in un sistema di controlli e di rigidità ancor più stringente del
precedente, abbandonando la Banca d’Inghilterra. Rimane la quarta ipotesi,
quella di una valuta propria. Probabilmente, sarebbe una moneta piuttosto
debole e ed esposta ai venti della speculazione. Buon per l’asfittico export
scozzese – il 21% del Pil, la metà del quale diretto verso gli altri Paesi
britannici – meno per i conti pubblici e il potere d’acquisto scozzese. Ci
sarebbe da ballare, insomma, ma secondo l’Economist quest’ultima, valutati i
pro e i contro - potrebbe essere la soluzione migliore.
Secondo il Guardian, il petrolio è il fiore
all'occhiello della Scozia indipendente: dal 1979 a oggi, dei 60 miliardi di
barili estratti nel Regno Unito oltre i due terzi provengono dal mare del
Nord. Una percentuale che nel corso degli ultimi anni è cresciuta: secondo
l’Istituto Nazionale della Ricerca Economica e Sociale inglese (Niesr), in caso
d’indipendenza, alla Scozia andrebbe il 91% dei ricavi derivanti dalla vendita
dell’oro nero. Basterebbe questo a spiegare perché la Scozia vorrebbe
l’indipedenza, insomma.
Le cose, tuttavia, sono un po’ più
complesse: è vero che solitamente le rendite seguono i destini dello Stato da
cui provengono, ma è anche vero che finora gli investimenti su pozzi e
piattaforme sono stati fatti da realtà come la Bp e da investimenti del Governo
britannico, quindi è possibile che la questione diventi merce di negoziazione
insieme a molte altre spinose questioni.
Non bastasse, c’è un successivo problema: i
ricavi in questi ultimi anni sono crollati, sia a causa dell’andamento del
prezzo del petrolio, in discesa, sia in relazione ad alcune chiusure non
previste. Se nel 2008-09 il petrolio scozzese ha fruttato 12,4 miliardi di
sterline, nel 2012-13 i ricavi sono scesi a 6,5 miliardi. Secondo l’Office of
Budget Responsability, osservatorio fiscale indipendente, anche nel migliore
degli scenari possibili – prezzi in crescita, produzione che riparte – nel
2017-18 i ricavi petroliferi dovrebbero assestarsi attorno ai 3,5 miliardi di
sterline. Ben al di sotto delle previsioni dell’Snp, che per lo stesso periodo
aveva stimato addirittura una crescita a 7,3 miliardi.
A quanto pare, sì ed è uno dei punti più
controversi del dibattito referendario. Oggi, i soldati britannici nati in
Scozia sono più o meno il 30 per cento. E ci sono anche un bel po'
di battaglioni di origine territoriale scozzese. Secondo il Ministro della
Difesa di Sua Maestà Philip Hammond l’esercito britannico è un meccanismo
talmente integrato e sofisticato che dividerlo «come una barretta di
cioccolato» è praticamente impossibile.
Facile o meno, lo Snp sta già pensando a
come organizzare il proprio nuovo esercito. Secondo Salmond sarà un esercito
molto leggero e si basera su una base navale, una base aerea e una brigata
mobile. Angus Robertson, il responsabile difesa dello Snp ha visitato Norvegia
e Danimarca per studiare il loro sistema di difesa, il che dà un’idea che
esercito abbiano in mente a Edimburgo. Innanzitutto, sarà un esercito poco
costoso: Danimarca e Norvegia, infatti, spendono per la difesa attorno all’1,5%
del Pil, il contributo che dà attualmente la Scozia all’esercito britannico è
pari al 3,3%. Soprattutto, sarà un esercito che guarda a nord e alle questioni
energetico-minerarie dell’Artico e dell’alto Atlantico, così come stanno
facendo oggi la Russia e la stessa Norvegia.
La più delicata di tutte, tuttavia, è la
vicenda relativa ai sottomarini nucleari Trident dell’esercito britannico,
ormeggiati in Scozia presso la base militare HMNB Clyde, una delle tre basi
operative della Royal Navy in Scozia. Salmond, su questo punto è stato molto
chiaro e la maggior parte degli scozzesi concorda con lui: la Scozia sarà un
Paese nuke free e quindi i Trident se ne devono andare.
Per chi non è avvezzo di problemi militari
potrebbe sembrare un problema da poco: morto un porto, i Trident ne troveranno
un altro, in Inghilterra o in Galles. Non lo è, invece. Secondo Hammond
un’eventuale rilocalizzazione dei sottomarini nucleari potrebbe arrivare a
costare «miliardi di sterline, forse decine di miliardi». Allo stesso modo,
anche trovare il luogo in cui mettere le nuove basi non sarebbe questione da
poco, visti i disagi e i rischi che la presenza di armi nucleari comporta per
la comunità che li ospita. È soprattutto questo tema che ha acceso oltremisura
la polemica elettorale tra i politici pro e contro l’indipendenza: l’ex
segretario della Nato George Robertson (scozzese, peraltro) ha definito
«cataclismatica» per la sicurezza occidentale questa eventualità, affermando
anche che sarebbe impensabile che la Nato accogliesse tra le sue fila – cosa a
cui Salmond tiene molto - un Paese che mette a rischio la strategia di
deterrenza nucleare della seconda potenza militare dell’alleanza. Tuttavia, per
il momento, nessun tipo di opzione alternativa è stata contemplata, o perlomeno
pubblicamente discussa, per non mostrare alcuna insicurezza in merito alla
vittoria dei No il 18 settembre.
Tra le tante questioni non di poco conto
che i negoziati tra la nuova Scozia indipendente e il Resto del Regno Unito – lo
chiama così pure l’Economist – c’è anche quella relativa a dirimere l’entità
della nuova contabilità pubblica dei due stati. In soldoni: come si
spartirebbero l’attuale debito pubblico? Il Nisr ha provato a fare una
simulazione su base censuaria: in tal caso, il debito pubblico del nuovo stato
scozzese oscillerebbe tra i 121 e 143 miliardi di sterline. In rapporto al Pil,
tra il 73 e l’86%, laddove il debito pubblico del resto del Regno Unito salirà
dal 90,6% attuale a una cifra tra il 94 e il 101%.
È probabile, tuttavia, che questo calcolo
non basti per arrivare a un’amichevole stretta di mano tra Cameron e Salmond.
Quest’ultimo, infatti, potrebbe avanzare ulteriori richieste: ad esempio,
potrebbe chiedere che da tale cifra vengano scomputate tutte le tasse che
il Governo del Regno Unito ha raccolto sull’estrazione di petrolio scozzese.
Dal canto suo, Cameron potrebbe controbattere ricordando come la Scozia abbia
ricevuto da Londra generosi trasferimenti di risorse che hanno contribuito in
modo rilevante alla crescita del debito pubblico britannico. Il precedente
storico della scissione tra Repubblica Ceca e Slovacchia, che ci hanno messo
sette anni per trovare un accordo sulla divisione delle riserve d’oro non è per
nulla incoraggiante.
Secondo l’Economist, il principale problema
del potenzialmente nascituro stato scozzese sarà quello demografico. In Scozia
ci sono solamente 3,2 persone in età da lavoro per ogni pensionato e nel 2037,
per l’Ufficio Statistico Nazionale (Ons) saranno soltanto 2,6, laddove nel
resto del Regno Unito, invece, le persone in età da lavoro tendono, e
tenderanno, ad aumentare. Il motivo è piuttosto semplice: Londra e il resto
dell’Inghilterra sono posti verso cui la gente tende a migrare, la Scozia è un
Paese da cui i giovani tendono a scappare.
Non solo: oltre che vecchi – o forse
proprio perché lo sono – gli scozzesi non sono nemmeno granché in salute. Scrive
ancora l’Economist, che in uno studio condotto quest’anno dall’Ons su 404 aree
locali, è risultato che otto sui dieci territori con la più bassa aspettativa
di vita alla nascita sono scozzesi. A Glasgow, tanto per fare un esempio, le
persone hanno una speranza di vivere media di soli 69 anni. Nella
comparazione internazionale, le cose vanno ancora peggio: la qualità della vita
scozzese, secondo un altro studio condotto dall’Ocse, è tra le ultime tre
d’Europa.
Finora, gli alti costi sanitari e
pensionistici scozzesi erano in buona parte coperti dai trasferimenti
provenienti da «mamma Londra». Domani, toccherà a Edimburgo provvedere. Salmond
pare avere le idee chiare pure su questo tema. Più volte, infatti, si è
scagliato contro la scarsa lungimiranza del governo britannico nel non aver
pensato a un fondo sovrano che investisse sui mercati finanziari, come invece
hanno fatto in Norvegia. Fondo che, probabilmente, vedrebbe la luce in caso di
indipendenza. E che, nelle aspettative di Salmond, pagherebbe sanità e pensioni
degli scozzesi, oltre che dare le risorse per investire nell’attrazione di
giovani talenti sul territorio.
Forse non è l’Arabia Saudita delle energie
rinnovabili, la Scozia, ma il motivo non è da ricercare in ciò che produce, ma
in ciò che ne ricava. I numeri possono aiutare a capire perché: è da lì che
proviene il 25% dell’energia europea prodotta dal vento e dalle maree e il 10%
di quella prodotta dal moto ondoso. Addirittura il 90% dell’energia
idroelettrica britannica è scozzese. Tuttavia, questa incredibile produzione
non solo non rende nulla o quasi alla Scozia, ma le costa anche parecchio: solo
lo scorso anno, 560 milioni di sterline di sussidi e aiuti fiscali, provenienti
sia da Endiburgo che da Londra. Probabilmente - paradosso dei paradossi – il
sogno di Salmond di coprire l’intero fabbisogno energetico scozzese con le
energie rinnovabili entro il 2020 sarà finanziato dai ricavi dalla vendita del
petrolio.
I problemi, semmai, sono di Inghilterra,
Galles e Irlanda del Nord, che senza le rinnovabili scozzesi si troverebbero a
dover pagare multe piuttosto salate per non aver rispettato l’obiettivo europeo
di taglio delle emissioni e di aumento dell’uso di energie rinnovabili entro il
2020 (il cosiddetto obiettivo 20-20-20). Gli inglesi, tuttavia, hanno un’altra
carta da giocare: senza gli incentivi alle rinnovabili pagati dai cittadini
britannici non scozzesi, le bollette costerebbero ai cittadini scozzesi
parecchio di più. Allo stesso modo, tuttavia, il Regno Unito ha scelto la
strada dell’energia nucleare – che già ora copre il 18% del fabbisogno
britannico - e si appresta a rinnovare insieme a partner franco-cinesi tutto o
quasi il parco delle sue ormai vecchie centrali. Pure questo, un affare
piuttosto costoso.
In breve: dimenticate il vecchio +44
britannico. Nel caso di vittoria del Sì, per chiamare in Scozia bisognerà
digitare +424. Perché questa scelta? Non aspettatevi riferimenti storici o di
cabala: semplicemente, perché è simile al vecchio +44, è libero ed è nel blocco
dei codici a disposizione degli stati europei.
Relativamente al dominio web, l’Internet
Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN) ha già formalmente accettato
la legittimità del dominio .scot che probabilmente sarà quello designato in
caso di indipendenza. Non fosse altro per il fatto che .sc è già il dominio
delle Seychelles e .sl è già quello della Sierra Leone.
Se vincessero, probabilmente sì, anche se
il referendum scozzese è perfettamente legale, avendo ricevuto l’assenso reale
il 7 agosto 2013, laddove non lo sarà il referendum del prossimo 4 novembre – se
mai si terrà – sull’indipendenza della Catalogna dalla Spagna e anche un
eventuale referendum per l’uscita dall’euro dell’Italia non lo sarebbe, in
quanto la Costituzione italiana esclude i trattati internazionali tra le
materie potenzialmente oggetto di consultazione referendaria.
Tuttavia è un altro l’aspetto importante da
considerare: l’indipendenza così come la vuole Salmond assomiglia molto alla
forte devolution promessa in un «patto a tre» dai leader dei tre principali
partiti britannici, Cameron, Miliband e Clegg il giorno prima (non a caso) del
dibattito televisivo tra i leader referendari scozzesi. È un patto che, di
fatto, dà alla Scozia ulteriore autonomia fiscale e legislativa.
In pratica, indipendentemente dal risultato
del 18 settembre, i nazionalisti scozzesi hanno già ottenuto una mezza vittoria
già solo promuovendo il referendum. Certo, in caso di una vittoria del No
rimarrebbero sul tappeto la questione del petrolio e quella del nucleare, ma se
la sconfitta degli indipendentisti fosse di misura, come i sondaggi di questi
giorni suggeriscono, potrebbe anche essere argomento di ulteriori negoziazioni.
In altre parole, la Scozia ha già dimostrato che alzare la voce paga.
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