da: la Repubblica
Matteo Renzi ha dichiarato guerra ai
“poteri forti”. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in cosa consistessero
i poteri forti, e cosa intendesse fare, il nostro premier ha preferito
glissare. Non sappiamo perciò cosa abbia in mente, oltre forse il sindacato e
la battaglia sull’articolo 18. Vorremmo allora suggerirgli due poteri davvero
forti che può fortemente ridimensionare senza bisogno di alcun passaggio
parlamentare. Gli basterà utilizzare la forza datagli dal voto delle primarie e
dal voto europeo.
Il primo è rappresentato dalla lobby delle
concessioni autostradali. Oggi costituiscono una barriera importante alla
mobilità del lavoro: milioni di italiani pagano i pedaggi autostradali ogni
giorno per recarsi dove lavorano.
E i pedaggi continuano ad aumentare (4 per
cento quest’anno e l’anno scorso a fronte di un’inflazione vicina allo zero),
nonostante il traffico sia in forte riduzione, un caso tipico di abuso del potere
di monopolio che viene loro concesso dallo Stato. Aumentano i profitti delle
concessionarie, che registrano redditi lordi (prima di imposte e interessi) del
60%, mentre calano gli investimenti nella rete, che intervengono comunque
sempre in ritardo rispetto ai piani concordati. Come spiega molto bene Giorgio
Ragazzi su lavoce. info,
nonostante tutto questo le concessionarie continuano ad ottenere proroghe e l’art. 5 dello sblocca-Italia estenderà le concessioni del gruppo Gavio addirittura fino al 2038. Insomma, mentre si decide giustamente di abolire i senatori a vita, si istituiscono le concessionarie autostradali a vita.
nonostante tutto questo le concessionarie continuano ad ottenere proroghe e l’art. 5 dello sblocca-Italia estenderà le concessioni del gruppo Gavio addirittura fino al 2038. Insomma, mentre si decide giustamente di abolire i senatori a vita, si istituiscono le concessionarie autostradali a vita.
Una seconda potente lobby che blocca il
nostro Paese è rappresentata dalle fondazioni bancarie, vero e proprio cavallo
di Troia della politica nel nostro sistema bancario e finanziario. Continuano a
tenere sotto controllo le banche con quote importanti e nominando i consiglieri
d’amministrazione: il 50% delle fondazioni ha quote superiori al 5% nelle
banche conferitarie, il 31% detiene più di un quinto delle quote, il 15%
addirittura più del 50%. Le due banche più grandi — San Paolo e Unicredit —
sono dominate dalle fondazioni. Ridurre l’ingerenza della politica nelle
banche, impedire che si passi dalla politica alle banche per tornare alla
politica come se si stesse salendo su un tram (il caso di Sergio Chiamparino) o
che un legislatore di fondazioni entri con disinvoltura in un consiglio (è il
caso di Roberto Pinza) è fondamentale per almeno tre motivi. Primo, perché una
buona struttura proprietaria rende più efficiente il sistema finanziario
facendo sì che i soldi vadano a chi li merita maggiormente perché ha idee
migliori anziché a chi è più connesso con i politici. Di riflesso, il sistema
bancario è più stabile rendendo il Paese meno vulnerabile alle crisi. È la
ragione che ha portato l’Fmi e la Banca d’Italia nell’ultima relazione a
riproporre questo tema. Secondo, perché staccandole dalle banche si salvano le
fondazioni da morte certa e si proteggono quelle funzioni di utilità sociale
che questi enti dovrebbero perseguire (hanno in media calato le loro erogazioni
del 30% negli ultimi 3 anni). Terzo, perché si riconducono i partiti alle loro
funzioni primarie. Se vogliono occuparsi di credito, lo facciano in Parlamento.
Sia nel primo caso, che nel secondo non c’è
bisogno di alcuna legge. Per le autostrade basta semplicemente mettere a gara
le concessioni, rimettendo mano allo sblocca-Italia. Anche per le fondazioni
nessuna legge è richiesta: la legge c’è già e prevede la separazione tra
fondazioni e banche. Viene sistematicamente disattesa come documentano, tra gli
altri, i casi macroscopici di Siena, Genova, Ferrara, Teramo, Pesaro, Macerata,
Saluzzo e Bra. Manca un atto di volontà di chi oggi gestisce le fondazioni di
fare quello che, oltre alla legge, suggerisce anche il buon senso: vendere le
partecipazioni nelle banche e investire nel settore del credito tanto quanto
investono nell’alimentare. Basterebbe che Renzi, come segretario del Pd,
impegnasse il suo partito a far uscire le fondazioni dalle banche liquidando le
partecipazioni nelle banche conferitarie, chiedendo ai membri del suo partito
che occupano posizioni di rilievo nelle fondazioni di procedere in tal senso.
Gli esempi non mancano: il presidente della Fondazione Banco di Sardegna è un
ex senatore del Pd e la fondazione controlla il 49% del Banco di Sardegna; le
fondazioni, secondo la ricostruzione del Fondo monetario internazionale,
esprimono oltre i due terzi dei boards di Unicredit e Intesa San Paolo; il caso
della Fondazione Monte Paschi è sotto gli occhi di tutti.
Il premier Renzi ha giustificato il
capitale politico da lui investito nella riforma del Senato, paragonando questa
riforma al pin che serve per poter fare le telefonate da un cellulare: fatta
quella riforma, ha sostenuto il nostro presidente del Consiglio, si potrà
iniziare a riformare pezzo per pezzo il Paese dove è necessario. Varare le
leggi però è laborioso, soprattutto quando, usando la sua stessa metafora, non
si possiede ancora il pin. I due interventi che suggeriamo su autostrade e
fondazioni sono molto importanti, molto utili e “scrostanti” e possono essere
attuati fin da subito senza approvare leggi, senza decreti e senza bisogno di
formare altre maggioranze, ma usando il potere che gli è proprio e quel
consenso enorme che ha ottenuto alle primarie del suo partito e poi alle
elezioni Europee. Servirà per favorire la mobilità e la miglior allocazione
delle persone e dei capitali, due cose di cui il Paese ha immenso bisogno per
uscire dalla stagnazione.
Nessun commento:
Posta un commento