da: la Repubblica
Profili
Facebook rubati tweet apocrifi, blog avvelenati Ma davvero il mondo dei social
network si è trasformato in una dittatura virtuale da subire comunque?
Denunciando alla polizia postale un impostore che appare sui social network a suo nome, Andrea
Camilleri si aggiunge a un elenco
ormai piuttosto lungo di scrittori e intellettuali “reazionari”. Uso
questo termine con voluta autoironia,
facendo parte anche io di quel novero. Ma ha una sua liceità tecnica: è
precisamente di una reazione che si tratta, conseguente a una rivoluzione
travolgente che, insieme ai suoi ovvi meriti (così ovvi che ripeterli è
stucchevole) ha portato con sé anche effetti collaterali molto negativi.
Principalmente due: una enorme e contagiosa amplificazione della rozzezza e
della violenza verbale, nel quadro di una incalcolabile facilità/ velocità di
diffusione di parole e pensieri di qualunque calibro, compreso quello infimo, e
comprese le menzogne intenzionali o le fole rilanciate; e l’abuso di identità,
che nella vasta gamma di violazioni della sfera personale rappresenta, almeno
dal punto di vista psicologico, l’apice della gravità. Il primo fenomeno
(rozzezza e violenza verbale) non dà luogo, in genere, a interpretazioni
radicalmente dissonanti. Ci si divide, al massimo, sull’attribuzione delle
responsabilità legali, sull’omesso o insufficiente controllo, sul grado di
automoderazione (e di distinzione del “vero” dal “falso”) che l’assemblea
digitante è in grado di raggiungere; ma come si dice in politica “la condanna è
unanime”, se si eccettuano poche frange di energumeni e di frustrati che
rivendicano la libertà di sfregio e di calunnia come parte integrante di una
raggiunta parità espressiva.
Più
controversa, e per questo forse più interessante, è la discussione sul furto o
sull’abuso di identità. Camilleri avrà modo di accorgersene, così come è
capitato a me qualche mese fa. Di fronte a chi protesta per l’esproprio del
“sé” nelle sue varie forme, scatta in primo luogo un’obiezione “politica”:
se sei un personaggio pubblico devi rassegnarti a un’esposizione mediatica
decisamente superiore alla media; e se non lo fai, è per una altezzosa
indisponibilità al confronto con gli altri, al libero dibattito, all’uso
pubblico del tuo lavoro e delle tue parole. In sostanza, non vuoi pagare il
prezzo della popolarità. Che questo prezzo non debba e non possa comprendere
anche le dichiarazioni apocrife su Facebook (è il caso di Camilleri) o l’uso del
tuo nome e della tua faccia per pagine “non ufficiali” che ti vengono comunque
attribuite (è il mio caso) o i falsi account su Twitter (è il caso di entrambi)
è una considerazione che forse può allentare il sospetto di “non sapere stare
al gioco”; ma non riesce a dissolverlo del tutto, anche perché uno dei miti
fondanti del web è una specie di totalitarismo democratico che genera una
inevitabile diffidenza, più che per il diritto d’autore, per l’autore in sé. È
la paternità della parola a sembrare arrogante e “superata” alla moltitudine di
parlanti in marcia sul web: perché dunque rivendicarla con tanto puntiglio? Chi
ci assicura che il “falso Camilleri” sia più stupido o incapace di quello
“vero”, e addirittura che sia “meno vero”? Lo scrittore americano Jonathan
Franzen, intervistato da Antonio Monda per questo giornale, disse: «La gente
tende a non leggere più i testi ma solo quello che è stato scritto sui testi ».
Il web, in questo senso, è uno sterminato contesto, una chat planetaria di
potenza così impari che la fagocitazione del testo e dell’autore è uno dei suoi
effetti inevitabili.
Ti fanno, poi,
se ti lamenti troppo di ritrovarti laddove non sapevi di essere e dove non vuoi
essere, una seconda obiezione. Meno politica e più “tecnologica”, e dunque
molto insidiosa in un ambito così tecnologico. Quando ebbi a lamentarmi sulla
prima pagina di Repubblica dei miei indesiderati “avatar”, giovani lettori e
internauti e blogger mi hanno scritto lettere anche severe ma senz’altro utili.
Li ringrazio in blocco per avermi insegnato più di una cosa su come funziona il
“loro” mondo. Ma già definendolo “loro”, quel mondo, comincio a impostare la
mia replica. L’imputazione a mio carico, infatti, è “non conoscere
abbastanza i social network”, non capire come funzionano, non saperli usare.
Come riprova, mi spiegano che la pagina Facebook “Michele Serra” da me
contestata non era, in realtà, un vero e proprio fake, o meglio era un fake
veniale: una pagina di discussione aperta a mio nome da un amministratore (che
poi non la amministrava affatto, ma questo è un altro argomento), come poteva
capire chiunque leggendo la dicitura “pagina non ufficiale”.
In replica ho
da dire due cose. La prima: il mio grado di conoscenza del web (come, suppongo,
quello di Camilleri e di altri non nativi digitali per ragioni anagrafiche)
discende dall’uso che decido di farne. Cerco informazioni e notizie, navigo,
consulto, scrivo, leggo. Ma non uso i social network. Perché dovrei estendere
la mia conoscenza anche al funzionamento e al linguaggio dei social network,
dal momento che NON è un mondo nel quale abito? Non è forse leggermente
totalitario (è la seconda volta che uso questo termine) supporre che tutti
debbano non solo usare il web, ma abitarci, impararne la lingua, perché il solo
modo per difendersi dai pericoli del web è entrarci dentro mani e piedi e
presidiare la propria posizione pre-assegnata? (da chi? da Dio? dal destino?).
Allo stesso modo, non è agghiacciante che il suggerimento univoco che amici
espertissimi mi diedero, mesi fa, è «apri la tua pagina Facebook, apri il tuo
account su Twitter, è l’unico modo che hai per difenderti»? Ripeto quanto
scrissi allora: sono, i social network, l’unico e il primo club nella storia
dell’umanità al quale iscriversi è obbligatorio?
Secondo.
L’esempio della mia “pagina non ufficiale”, ora chiusa, dimostra in modo
lampante che l’equivoco non riguarda me (che abito altrove), ma gli abitanti
stessi del web: molti dei quali scrivevano inviti, complimenti, insulti a me
diretti rimanendo molto sorpresi o molto offesi dalla mia mancata risposta, e
dunque loro, non io, incapaci di decifrare quel sotto- cartello (pagina non
ufficiale) appeso sotto l’insegna principale, che portava scritto in grosso il
mio nome. Se il problema è di comprensione di quella lingua, vale per chi
quella lingua vuole parlare, o pretende di farlo. Non è a me o a Camilleri o a
qualunque altro renitente o disertore che i professori di web devono spiegare
dove sta l’errore, ma alla moltitudine che ne fa uso quotidiano. Controprova
(che devo a uno dei miei giovani corrispondenti): esiste un account Twitter
“Renzo Mattei”. È subissato di insulti contro Matteo Renzi. Accecato dalla
fretta, dalla foga, dall’irriflessività, il toro carica senza neanche darsi il
tempo di capire che non ha di fronte Matteo Renzi, ma un ilare fantoccio che ne
imita il nome. Il tempo per riflettere, quello, è un benefit che il web non
prevede: o uno se lo prende da sé, o è destinato a soccombere ai propri istinti
e ai propri errori.
Bisognerebbe
che gli abitanti dei social network, piuttosto che perdere il loro tempo a
sottolineare l’inettitudine, l’estraneità, l’anacronismo di noi assenti o
fuggiaschi, facessero meglio i conti con un problema che è decisamente più
loro, degli utenti, che nostro. Noi non utenti possiamo, al massimo, far
presente che non c’entriamo e non vogliamo entrarci: almeno fino a che ne
avremo la facoltà, meglio ancora la libertà. Ma a loro sarebbe utile cogliere,
nella nostra stravagante assenza, qualche segnale utile a rendere più piacevole
e veritiera la loro presenza.
Ps – Per non
mettere troppa carne al fuoco accenno appena alla questione, gigantesca,
dell’altrettanto gigantesco lucro che i falsi profili e i falsi account portano
nelle tasche degli oligopolisti padroni dei social network. Secondo il New York Times, i falsi account su Twitter producono, da
soli, utili per trecento milioni di euro all’anno.
Nessun commento:
Posta un commento