da: Il Sole 24 Ore
Uno più uno non sempre fa due. Storia di Basaglia, il dottore dei matti
di Giuseppe Ceretti
Quanto fa uno più uno? Il pessimismo della ragione ci dirà
sempre due, senza appello, ma l'ottimismo della volontà ci risponde che può
fare anche tre, o quattro, o dieci.
Eccolo Franco Basaglia, il dottore dei matti. È morto
ancor giovane trentadue anni fa, ma non smette di indicarci la via maestra. Lo
studio, l'indagine, la sperimentazione oltre ogni apparenza, ma con un
traguardo: il rispetto dell'individuo e la difesa di ogni personalità umana.
Lo potremmo definire un discorso sul metodo o sulla
libertà, come suggerisce l'autore nella chiosa. Perciò la lettura di questa
biografia è affare che riguarda noi tutti e non una ristretta cerchia di
specialisti e intellettuali.
Basaglia ha legato il suo nome alla legge che ha portato alla chiusura dei manicomi. La sua figura fu per tanti anni motivo di grandi consensi e aspre critiche. Tuttavia mai fu fiaccato: era un combattente, anche quando venne isolato, emarginato, più simile allo straniero e all'uomo in rivolta di Camus che a quello dell'amato Sartre. E spesso equivocato, travisato.
Basaglia ha legato il suo nome alla legge che ha portato alla chiusura dei manicomi. La sua figura fu per tanti anni motivo di grandi consensi e aspre critiche. Tuttavia mai fu fiaccato: era un combattente, anche quando venne isolato, emarginato, più simile allo straniero e all'uomo in rivolta di Camus che a quello dell'amato Sartre. E spesso equivocato, travisato.
Il dottore dei matti non disse mai che la malattia mentale
non esiste: «Io critico il concetto di malattia mentale, non nego la follia che
è una situazione umana. Il problema è come affrontarla, come possiamo
rispondere a questo bisogno». Quindi curare un individuo significa
«restituirgli le sue integre possibilità esistenziali».
Non sedarlo, non
addomesticarlo, ma restituirgli dignità, responsabilità, diritti e doveri.
Parole immense, ma insieme le più pure, da scalare con le
armi della mente e con i fatti. Perciò il sognatore Basaglia è uno
straordinario riformista, «che non significa moderato». Non respinse mai la
legge 180, che pure era frutto d'un compromesso, vivendola come il principio
del lavoro dei veri riformatori: il radicalismo degli obiettivi unito alla
coscienza della solidità dei piccoli gesti.
La storia di Basaglia ha la forza evocatrice d'un romanzo
e ci restituisce il profilo d'un uomo condannato dalla retorica dominante agli
estremi: folle anche lui tra i folli o, forse peggio, anima pia, il santo che
cammina tra le macerie umane: «La distorsione ipocrita gli attribuisce dannose
fantasie, mentre la critica sociale e la denuncia delle ingiustizie della
società vengono via via confinate ai margini della politica e della cultura».
Il racconto della vicenda terrena del dottore dei matti si
snoda dalla sua Venezia che lo ha visto bimbo in campo San Polo; poi
l'iscrizione nel '43 a Medicina, il contributo alla Resistenza quale
portaordini, sino all'arresto nel novembre del '44. È con la tesi di laurea del
1949 che s'inoltra nel cuore degli studi. Jaspers, Binswanger, Minkowski lo
avvicinano alla "daseinanalyse", dottrina dell'essere nel mondo come
trascendenza, che per la prima volta supera la scissione della realtà in
soggetto-oggetto. Una metodologia che mette direttamente in gioco la persona
che non resta una terza parte, un esaminatore distaccato, «ma colui che
partecipa cercando di cogliere non il sintomo, ma il modo in cui esso si
manifesta».
Dodici anni a Padova, sino al 1961 quando vince il concorso
per la direzione dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, città due volte luogo
di confine. Oltre quelle mura c'è un altro Paese, dentro, dentro quei muri c'è
il lager, la fabbrica della follia, con le sevizie sino a quei giorni lasciate
sotto silenzio. Accanto alle crudeltà c'è tuttavia una normalità altrettanto
allucinante, fatta di tranquillanti, calmanti, di elettroshock, con quelle
pinze che assomigliano agli strumenti dell'elettrauto.
Se questo è un uomo. Ma questo è un uomo, grida con forza
Basaglia, che si sveste del camice bianco, poi leva le inferriate, apre i
padiglioni. Quando nel 1967 per la prima volta una troupe tv mette piede in un
manicomio, il giornalista Sergio Zavoli gli chiede: «Le intessa più il malato o
la malattia?».Risponde: «Oh, decisamente il malato, non saprei proporre niente
di psichiatrico in un ospedale dove gli ammalati sono legati, perché nessuna
terapia di questo genere può dare giovamento».
Prima Gorizia, poi Trieste, le battaglie, le conquiste,
sopra tutte la legge che porta il suo nome e l'impegno quotidiano, tra mille
polemiche. Con una radicata convinzione: non esiste "la"soluzione, ma
soluzioni apparenti. Anche la migliore delle comunità terapeutiche non rompe
gli schemi se riproduce addomesticate vecchie segregazioni e condanna i matti a
essere matti per sempre.
Pivetta ci accompagna nell'itinerario con passione, come
testimoniano le belle pagine dedicate a Colorno e la storia di Mario Tommasini,
l'assessore alla Sanità della Provincia di Parma che più ha creduto in
Basaglia, sovente contro il suo stesso partito, il Pci.
L'impalcatura dell'"architetto" Pivetta si mostra assai solida per la capacità di leggere la vicenda come un capitolo fondamentale della più grande storia del dopoguerra d'Italia, al cui sviluppo, nel bene e nel male, non sono estranee le vicissitudini politiche del tempo.
Nelle ultime pagine cita le fonti: libri, film, testimonianze, cronache dei giornali. In questi titoli di coda sono riassunti il senso del lavoro certosino del cronista e le ragioni della sua fatica.
Grazie, Franco Basaglia, che hai regalato a noi tutti «una storia straordinaria, forse irripetibile».
Oreste Pivetta
Franco Basaglia - Il dottore dei matti
Pagg. 287, euro 17
Dalai editore
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