da: la Repubblica
Perché
votare. Un dilemma italiano
di Ilvo
Diamanti
Votare per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma.
Amplificato dalle recenti dichiarazioni di
Monti, che ha confermato l’intenzione di non candidarsi come premier, alle
prossime elezioni. Ma non ha escluso l’ipotesi di «dare una mano, se fosse
richiesto ». Per proseguire nell’impegno avviato da quasi un anno. Un messaggio
raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato, infine, la sua “discesa
in campo”. A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che
hanno proposto un “cartello elettorale”. Nel nome del Professore. Al quale,
però, interessa presentarsi e agire – come premier al di sopra delle parti e
dei partiti.
Dunque, al di sopra e al di fuori della
competizione elettorale.
Investito dalla volontà di un’ampia maggioranza
del Parlamento. L’idea, d’altronde, non piace neppure ai leader dei partiti
maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è,
quindi, detto che la “disponibilità” annunciata da Monti si traduca in
decisione. Ma il fatto stesso che l’ipotesi oggi appaia verosimile è
significativo. D’altronde, l’unico leader di cui gli elettori si fidino
veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle
ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori
alla metà dell’elettorato (dati Ipsos). Gli elettori, dunque, vogliono un
governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta
che a guidarlo sia Monti.
Il dilemma della democrazia
rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto “non serve” a scegliere chi
governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che “serve” votare? E com’è
possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?
Questo dilemma, però, non è poi tanto
paradossale – e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori,
sarebbe alla base della nostra “anomalia”.
In fondo, per quasi cinquant’anni il
sistema politico italiano è apparso “bloccato”. Dopo la seconda guerra
mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera
alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista
occidentale. Si è così affermato un “bipartitismo imperfetto”, per citare
Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato,
proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato,
da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l’opposizione. Lo stesso
Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e
consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte. Questa
“anomalia” è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della
Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant’anni, gli italiani hanno votato pur
sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali,
peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del
governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai
rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della
legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire.
Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande
numero. Alle politiche: tra il 90% e l’80% degli aventi diritto, fino ad oggi.
Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie
occidentali.
Anche se la fiducia nei partiti non è mai
stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente.
Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per
fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.
Nella Seconda Repubblica questo modello è
cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma
in Italia il comunismo, meglio ancora: l’anticomunismo non è mai morto. Evocato
e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato
il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A
dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai,
è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le
elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi. Così il Paese si è
presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di
fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai
partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una
protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e
dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la
credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I Partiti,
nell’insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il
Capo (del governo).
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Per questo, dubito che la dissociazione fra
i principi della democrazia rappresentativa – partecipazione e governo – possa
riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e
istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un
soggetto che raccoglie il sentimento “antipartitico” e sostiene, in alternativa
all’attuale sistema, la democrazia diretta – attraverso rete.
Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi
dell’area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per
disaffezione verso i “canali” della rappresentanza democratica.
Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra
partecipazione – elettorale – e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica
“in un cerchio chiuso in se stesso”, come ha osservato Edmondo Berselli.
Perché, in questo caso, “la democrazia si incarta, come in una partita
malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio”. E Monti, premier al di
sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo
in mezzo a tutti. Solo contro tutti.
Nessun commento:
Posta un commento