da:
Lettera 43
Made
in, il parlamento Ue approva la proposta di regolamento
Strasburgo:
si all'indicazione del paese d'origine sui prodotti. Come chiesto da Roma.
Superato l'ostruzionismo tedesco.
di Antonietta Demurtas
Italia-Germania 1 a
0. La partita per il 'made in' si è conclusa a favore dell'Italia, che il 15
aprile è riuscita a portare a casa, grazie al voto del parlamento di
Strasburgo, la proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo.
La relazione
presentata dalla socialista danese Christel Schaldemose è stata adottata con
485 voti a favore, 130 contrari e 27 astensioni. Risultato: le etichette 'made
in' dovrebbero ora essere obbligatorie per i prodotti non alimentari venduti
nel mercato comunitario.
Una vittoria
rappresentata soprattutto dall'approvazione dell'articolo 7 inserito nel
capitolo sulla tracciabilità, che prevede che i fabbricanti e gli importatori
mettano sui loro prodotti un'indicazione del paese d'origine, sostituendo così
l'attuale sistema volontario. A oggi, infatti, circa il 10% dei beni presi in
esame dal sistema di allarme Rapex dell'UE non è riconducibile al produttore.
«Per
fortuna oggi si è creata una convergenza su questo problema», commenta con
Lettera43.it Sergio Cofferati, vicepresidente della Commissione parlamentare
per il mercato interno e la protezione dei consumatori, «il fatto che gli
stessi tedeschi si siano divisi durante la votazione dimostra come il tema sia
fondamentale per garantire la sicurezza dei consumatori».
PIÙ CONTROLLO SUI
PRODOTTI IMPORTATI. Una lunga battaglia intrapresa dall'Italia fin dal 2005,
quando aveva sollecitato un intervento normativo capace di offrire maggiori
informazioni ai consumatori e rafforzare la lotta alla contraffazione grazie a
un miglior controllo sui prodotti importati.
Ma sin dall'inizio,
sull'articolo 7, c'è stata l'opposizione della Germania e dell'area
angloscandinava. Così le due più grandi potenze manifatturiere europee hanno
iniziato a lottare per difendere il proprio mercato.
Italia-Germania:
lo scontro tra le due più grandi potenze manifatturiere
Se da un lato per
l'Italia inserire l'origine del prodotto rappresenta infatti un valore aggiunto
in termini di competitività, per la Germania non porta nessun vantaggio, anzi:
la sua è una manifattura basata soprattutto sull'assemblaggio di semilavorati dai
Paesi emergenti e che con la tracciabilità potrebbe avere un danno di immagine.
Che un martello pneumatico abbia la scritta made in Germany non ha infatti lo
stesso appeal commerciale di un prodotto made in Italy, che sia un paio di
scarpe o un elettrodomestico.
CONTA L'ULTIMA LAVORAZIONE. A nulla è servito il tentativo di 'ammorbidire' il regolamento lasciando al produttore la scelta se inserire il nome dello Stato di provenienza o direttamente, in maniera più generica, il made in Eu. Nè il fatto che comunque a causa di un Codice doganale ancora obsoleto, il 'made in' deve indicare il Paese dove è avvenuta l'ultima lavorazione o trasformazione sostanziale del prodotto: basta cucire in Italia i bottoni di una camicia fatta in Bangladesh, per poter etichettare il made in Italy.
IL PRIMO TENTATIVO NEL 2005. Nonostante quindi la norma proposta non fosse così rigida, per anni il tema si è arenato alle porte dell'Unione europea: l'articolo 7 fu inserito nella proposta sul 'made in' del 2005, ritirata però alla fine del 2012 per la mancanza di un accordo tra i vari Stati membri.
CONTA L'ULTIMA LAVORAZIONE. A nulla è servito il tentativo di 'ammorbidire' il regolamento lasciando al produttore la scelta se inserire il nome dello Stato di provenienza o direttamente, in maniera più generica, il made in Eu. Nè il fatto che comunque a causa di un Codice doganale ancora obsoleto, il 'made in' deve indicare il Paese dove è avvenuta l'ultima lavorazione o trasformazione sostanziale del prodotto: basta cucire in Italia i bottoni di una camicia fatta in Bangladesh, per poter etichettare il made in Italy.
IL PRIMO TENTATIVO NEL 2005. Nonostante quindi la norma proposta non fosse così rigida, per anni il tema si è arenato alle porte dell'Unione europea: l'articolo 7 fu inserito nella proposta sul 'made in' del 2005, ritirata però alla fine del 2012 per la mancanza di un accordo tra i vari Stati membri.
Il secondo round è
iniziato il 13 febbraio 2013, quando, per semplificare e rendere più omogenee
le norme di sicurezza applicabili ai prodotti non alimentari, la Direzione
generale imprese e industria della Commissione ha presentato un nuovo pacchetto
che includeva una comunicazione e due proposte di regolamenti sulla sicurezza
dei prodotti di consumo e la vigilanza di mercato.
IN DIFESA
DELL'ARTICOLO 7. In particolare a difendere l'articolo 7 è stata la Commissione
mercato interno e protezione dei consumatori del parlamento europeo, che l'ha
inserito nella relazione sulla proposta di regolamento sulla sicurezza dei
prodotti approvato il 17 ottobre 2013.
Dopo
il voto del parlamento, tocca alla Commissione avviare il negoziato
Da allora sono
iniziate nuove consultazioni. La relatrice del rapporto, la socialista danese
Christel Schaldemose ha avuto il mandato dalla stessa Commissione parlamentare
per negoziare un testo di compromesso con il Consiglio.
Ma, nonostante l'appoggio dei socialisti democratici (S&D), della sinistra unitarie europea (Gue) e del Partito popolare europeo (Ppe), le divisioni tra gli Stati membri non hanno permesso di arrivare a una soluzione.
ANCHE LONDRA CONTRARIA. Tra i favorevoli all'indicazione di origine: Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Croazia. Tra i contrari: Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Belgio, Danimarca, Svezia e Austria.
Fallito il primo tentativo di conciliazione a dicembre 2013, l'ultimo è stato fatto dalla presidenza greca a gennaio 2014. E anche in quell'occasione, gli schieramenti sono stati irremovibili.
LE PRESSIONI DI ROMA. Così per oltre un anno il Consiglio non è riuscito a trovare un accordo. Ora però grazie al voto del parlamento la Commissione Ue dovrebbe avviare il negoziato per trovare un accordo definitivo prima dello scadere del suo mandato in autunno.
«Questo è un grande passo in avanti per la trasparenza della catena di fornitura di un prodotto», ha affermato la relatrice sulla sicurezza dei prodotti Schaldemose, che ha anche criticato con forza il fatto che gli Stati membri non siano stati in grado di concordare una posizione comune sulla questione, bloccando cosi i negoziati sul regolamento nel suo complesso, a scapito della sicurezza dei consumatori in Europa.
COFFERATI: IL CONSIGLIO DECIDA. «Ora il Consiglio deve solo prendere atto del voto del parlamento e rispettarlo», dice Cofferati, «spero che adotti il testo il prima possibile. Se ne parla da troppo tempo. Ora bisogna agire».
I tempi sono stretti, ma a far bene sperare è il fatto che da luglio parte il semestre di presidenza italiano. E l'Italia potrebbe giocare quindi un ruolo fondamentale esercitando una pressione sull'esecutivo per accelerare i tempi e far prendere al Consiglio una posizione.
Ma, nonostante l'appoggio dei socialisti democratici (S&D), della sinistra unitarie europea (Gue) e del Partito popolare europeo (Ppe), le divisioni tra gli Stati membri non hanno permesso di arrivare a una soluzione.
ANCHE LONDRA CONTRARIA. Tra i favorevoli all'indicazione di origine: Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Croazia. Tra i contrari: Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Belgio, Danimarca, Svezia e Austria.
Fallito il primo tentativo di conciliazione a dicembre 2013, l'ultimo è stato fatto dalla presidenza greca a gennaio 2014. E anche in quell'occasione, gli schieramenti sono stati irremovibili.
LE PRESSIONI DI ROMA. Così per oltre un anno il Consiglio non è riuscito a trovare un accordo. Ora però grazie al voto del parlamento la Commissione Ue dovrebbe avviare il negoziato per trovare un accordo definitivo prima dello scadere del suo mandato in autunno.
«Questo è un grande passo in avanti per la trasparenza della catena di fornitura di un prodotto», ha affermato la relatrice sulla sicurezza dei prodotti Schaldemose, che ha anche criticato con forza il fatto che gli Stati membri non siano stati in grado di concordare una posizione comune sulla questione, bloccando cosi i negoziati sul regolamento nel suo complesso, a scapito della sicurezza dei consumatori in Europa.
COFFERATI: IL CONSIGLIO DECIDA. «Ora il Consiglio deve solo prendere atto del voto del parlamento e rispettarlo», dice Cofferati, «spero che adotti il testo il prima possibile. Se ne parla da troppo tempo. Ora bisogna agire».
I tempi sono stretti, ma a far bene sperare è il fatto che da luglio parte il semestre di presidenza italiano. E l'Italia potrebbe giocare quindi un ruolo fondamentale esercitando una pressione sull'esecutivo per accelerare i tempi e far prendere al Consiglio una posizione.
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