E’ in edicola con Repubblica Who’s Next.
Who’s Next è forse il miglior album degli
Who. Forse, perché è un’opera incompleta, fatta di parti di un lavoro più ricco
e complesso, un’opera incompiuta, “The lifehouse” alla quale Pete Townshend
aveva iniziato a lavorare all’indomani del successo della precedente rock
opera, “Tommy”. “Lifehouse” per diversi motivi non vide mai la luce e “Who’s
Next” nella mente dell’autore era poco più che un rimedio alla depressione,
allo stress del fallimento del progetto principale, che aveva spinto Townshend
ai limiti del suicidio. Ma allo stesso tempo per la band poter lavorare senza
le costrizioni creative e produttive di un’opera rock fu una sorta di
liberazione, che consentì al quartetto, con l’aiuto del produttore Glyn Johns,
di mettere a fuoco alla perfezione i singoli brani. Assieme a “Led Zeppelin
IV”, pubblicato nello stesso anno, il 1971, infatti “Who’s Next” è una sorta di
manuale del rock “come dovrebbe essere”, il rock più duro, solido, concentrato
e potente, ma che al tempo stesso sa essere profondo, ricco, emotivo e
coinvolgente.
Townshend riesce a scrivere canzoni memorabili, come la personalissima “Behind blu eyes”, rock classici com “Getting in tune”, brani animati dal misticismo come “Bargain” o altri leggeri e alternativi come “Going mobile”, che
pur
essendo quasi tutti parte di un progetto più ampio e complesso riescono a
vivere di vita propria per l’apporto creativo e sostanziale della band, in
particolare del drumming creativo di Keith Moon intrecciato perfettamente con
il basso di John Entwistle. Roger Daltrey, dal canto suo, con la sua splendida
voce, da corpo ai sogni, ai demoni, alle visioni di Townshend in maniera perfetta,
confermandosi come uno dei più completi e inattaccabili frontman e cantanti
dell’intera storia del rock, come dimostra, assieme agli altri, nella
leggendaria “Baba O’Riley”, pezzo in cui l’avanguardia minimalista e il rock
più elettrico raggiungono una magica fusione. “Who’s next” è un gioiello, un
tassello fondamentale nel mosaico che compone la storia del rock, un album
maturo e innovativo, che stabilirà alcuni canoni del genere e al tempo stesso
aprirà la strada per molte delle evoluzioni future. E’ un album scritto nel
pieno della crisi della cultura giovanile degli anni Sessanta, con tutte le
amarezze e le speranze di un momento di transizione. Ben rappresentate da una
canzone che da sola potrebbe servire come perfetto manuale per comprendere la forza,
l’essenza, la natura del rock e si intitola “Won’t get fooled again”. Ci sono
molti modi di interpretare la canzone, il testo, ma un solo modo per ascoltarla
davvero: quello di attendere, con calma, tra i suoni ossessivi delle tastiere e
il ritmo crescente della batteria di Keith Moon, l’urlo dirompente di Roger
Daltrey che arriva pochi istanti prima della conclusione del brano. Quell’urlo,
con tutta la sua forza, la sua liberatoria energia, la sua capacità di
esprimere rabbia, dolore, insoddisfazione, ma anche speranza, ribellione,
desiderio, è il rock nella sua primaria espressione, nella sua basilare
coerenza, nella sua immediatezza, nella sua essenzialità. Il rock non è un
genere ma un’attitudine, un modo di fare le cose, una lente attraverso la quale
guardare la musica, la vita, l’arte. Townshend, Daltrey, Moon e Entwistle in
“Won’t get fooled again” dimostrano cosa il rock era in grado di fare e,
incredibilmente, cosa è ancora in grado di fare: se ascoltate quell’urlo con
attenzione non potrete più ascoltare il rock allo stesso modo. E se non vi
sembrerà null’altro che un urlo, beh, allora semplicemente il rock non è musica
che fa per voi.Townshend riesce a scrivere canzoni memorabili, come la personalissima “Behind blu eyes”, rock classici com “Getting in tune”, brani animati dal misticismo come “Bargain” o altri leggeri e alternativi come “Going mobile”, che
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