venerdì 18 aprile 2014

Gabriel Garcia Marquez: Cent’anni di solitudine / 3



Il grande sciopero esplose. I coltivi rimasero a mezzo, la frutta maturò sugli alberi e i treni di centoventi vagoni si fermarono sui binari morti. Gli operai oziosi fecero traboccare i villaggi. La Strada dei Turchi splendette in un sabato di molti giorni, e nella sala dei biliardi dell’Hotel di Jacob fu necessario stabilire turni di ventiquattro ore. Lì si trovava josè Arcadio Secondo il giorno in cui si annunciò che l’esercito era stato incaricato di ristabilire l’ordine pubblico. Benchè non fosse uomo di presagi, la notizia fu per lui come un annuncio della morte, che aveva aspettato fin dal lontano mattino in cui il colonnello Gerineldo Marquez gli aveva permesso di assistere ad un fucilazione. Tuttavia, il malaugurio non alterò la sua solennità. Tirò il colpo che aveva previsto e non sbagliò la carambola. Poco dopo i rulli del tamburino, i latrati della tromba, le grida e la confusione della gente, gli indicarono non soltanto che la partita a biliardo ma anche la taciturna e solitaria partita che giocava con se stesso dal mattino dell’esecuzione erano finalmente terminate. Allora si affacciò in strada, e li vide. Erano tre reggimenti la cui marcia ritmata da tamburi di galeotti faceva tremare la terra. Il loro alito di drago multicefalo impegnò di un vapore pestilenziale il chiarore del mezzogiorno. Erano piccoli, massicci, bruti. Sudavano con sudore di cavall, e avevano un odore di carnaccia macerata dal sole, e l’impavidità taciturna e impenetrabile degli uomini dell’altipiano. Benchè ci mettessero più di un’ora a passare, si sarebbe potuto pensare che fossero
soltanto poche squadre intente a girare in giro, perchè tutti erano identici, figli della stessa madre, e tutti sopportavano con uguale stolidità il peso dei tascapane e delle borracce, e la vergogna dei fucili con le baionette innestate, e la scoglionatura dell’obbedienza cieca e del senso dell’onore.

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