da: Rockol
di Andrea
Valentini
Se la decenza e il rispetto per il mio
editore, per il mio direttore e per i più formali tra voi non si mettessero di
traverso, inizierei questa recensione con una raffica di imprecazioni tutte
attaccate. Avete presente, no? Proprio come quando ci si ritrova davanti a una
scoperta inaspettata, grande, difficile da descrivere mantenendo calma e
razionalità... e allora l’unica cosa che riesci a fare è soffiare via una
sventagliata di improperi appiccicati l’uno all’altro con il mastice.
Sì, il nuovo disco degli Hold Steady è
proprio così: bello da far male. E lo dico anche se i fan più hardcore della
band di Craig Finn e soci hanno già ampiamente fatto intendere che, per loro,
“come i primi tre album non ce n’è” e questo “Teeth dreams”, nella migliore
delle ipotesi, è un disco "discreto", sulla scia del predecessore.
Mi permetto di dissentire con una certa forza.
Mi permetto di dissentire con una certa forza.
Le prime prove degli Hold Steady sono – senza ombra di dubbio – epocali nella
loro potenza narrativa, anima rock, imprevedibilità e capacità di miscelare
stili eterogenei (punk, folk, sonorità washingtoniane stile Dischord, classic
rock, emo rock anni Novanta, indie, college rock, roots, Americana), ma
l’evoluzione che si riscontra negli ultimi lavori non è necessariamente
negativa. Anzi. Siamo di fronte a un gruppo che sta cambiando, invecchia,
matura, trova punti di vista o scopre risvolti nuovi; proprio come accade alle
persone. E la maturità degli Hold Steady li porta sempre più a entrare
nell’élite dei grandi interpreti di quel genere che è tanto facile da citare a
sproposito, ma difficile da suonare in maniera credibile e sincera: il rock
americano. Ah, per pietà, capiamoci subito... non stiamo parlando di Bon Jovi,
di Michael Bolton o dei Journey, come riferimenti musicali. Ok?
Insomma, “Teeth dreams” è vero e crudo American rock’n’roll, di quello coi
riffoni, le melodie calde e malinconiche, il retrogusto di cartavetro in gola,
i vestiti comprati in un mall semideserto in mezzo al nulla, un po’ di polvere
negli occhi e la schiena rotta dopo qualche centinaio di miglia alla guida di
un pick-up che perde i pezzi. Lo conferma immediatamente il brano di apertura,
quella “I hope this whole thing didn't frighten you”, ruvida e avvolgente,
cattiva e amichevole al tempo stesso. Epica da periferia senza vie di fuga.
I testi a molti, adesso, sembrano più generici e meno graffianti a livello
letterario (lo “scavo” e approfondimento dei personaggi sono effettivamente
inferiori - e le figure citate nelle canzoni sono quasi schizzi e disegnini,
accenni), ma resta comunque una grande capacità narrativa ed evocativa. Se
prima Finn offriva ritratti quasi proustiani, nella ricchezza di informazioni e
dettagli, ora lascia all’ascoltatore il compito di “colorare” alcune aree di
questi quadretti, accontentandosi di tratteggiare le linee più forti e
fondanti. Poesia da baristi del New Jersey, di poche parole, ma con più acume
di una squadra di antropologi e sociologi messi assieme.
La sensazione palpabile è che per comprendere appieno questo nuovo corso degli Hold
Steady, probabilmente, la chiave di lettura sia proprio il brano che chiude
“Teeth dreams” (peraltro l’album ha un titolo davvero suggestivo, che fa
riferimento al significato dei sogni in cui c’entrano i denti e riflettono la
sensazione di impotenza di fronte a una realtà che ci intrappola). Parlo della
lunga suite “Oaks”: oltre nove minuti di ballata rock onirica, in cui la
rassegnazione a un presente da vivere minuto per minuto viene diluita
dall’equivalente psicologico di uno shottino di bourbon distillato da un
moonshiner novantenne - che brucia la gola, ma regala un filo di speranza, se
non altro in qualche momento di serenità, che un giorno o l’altro potrebbe
arrivare. Ma chissà.
TRACKLIST:
I hope this whole thing didn't frighten you
Spinners
The only thing
The ambassador
On with the business
Big cig
Wait awhile
Runner's high
Almost everything
Oaks
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