da: Il Fatto Quotidiano
“L’abitudine a creare, almeno
sistematicamente, una seconda copia del materiale acquisito, è relativamente
poco diffusa (13,5%, che sale al 20,3% tra gli ‘utilizzatori frequenti’), tanto
che il 20,3% del campione dichiara di non far uso di copie private…e nel caso
in cui comunque si faccia copia privata, come prevedibile, è sempre il personal
computer il principale dispositivo attraverso il quale si generano le nuove
copie (69,4%), che vengono di solito salvate su un supporto fisico (63,4%)”.
E’ questa la conclusione cui si perviene
nella ricerca di mercato commissionata alla Quorum dall’ex ministro dei Beni e
delle Attività culturali, Massimo Bray e, oggi, finalmente, desecretata dal suo
successore, Dario Franceschini dopo che, per settimane, consumatori ed
industria ne avevano, invano, richiesto la pubblicazione.
Una manciata di caratteri che dovrebbe
segnare l’epilogo – auspicabilmente lieto nel senso di equo ed onesto – di una
brutta storia italiana nella quale gli interessi privati ed egoistici di pochi
hanno rischiato di influenzare il processo di regolamentazione di una materia
straordinariamente delicata e complessa come
il diritto d’autore.
il diritto d’autore.
Sono, infatti, mesi che la lobby
dell’industria musicale ed audiovisiva capitanata dalla Siae, la società
italiana autori ed editori, chiede, a gran voce, l’aumento delle tariffe del
cosiddetto equo compenso per copia privata per tener conto del crescente
utilizzo – a suo dire – di smartphone e tablet per l’esecuzione di copie
private da parte dei consumatori italiani.
Una richiesta arrivata, a più riprese, al
Ministero dei Beni e delle Attività culturali, a voce talmente tanto alta che,
proprio al Ministero, era stata già predisposta la bozza di un decreto che
attendeva solo la firma dell’ex ministro, Massimo Bray: una firma che avrebbe
potuto rendere i consumatori italiani più poveri di oltre 200 milioni di euro
all’anno ed i soliti noti dell’industria cinematografica e musicale più ricchi
di un importo altrettanto consistente, in compagnia della Siae che, a titolo di
“rimborso spese di gestione”, si sarebbe garantita oltre dieci milioni di euro
all’anno.
L’equo compenso per copia privata, infatti,
secondo Siae avrebbe dovuto gravare per oltre 5 euro su ogni smartphone e
tablet venduto in Italia per compensare gli autori – e naturalmente l’industria
musicale e audiovisiva – delle gravi perdite subite per effetto della crescente
abitudine dei consumatori italiani a creare copie private di musica e film sui
loro telefonini e tablet.
Per fortuna – ed anzi per merito dell’ex
ministro, Massimo Bray che decise di vederci chiaro, commissionando la ricerca
che oggi Dario Franceschini ha pubblicato – quel decreto non è mai stato
firmato.
La ricerca di mercato appena pubblicata,
infatti, rivela che appena il 5% degli italiani ai quali si chiede di
immaginare di voler fare una copia privata di un brano musicale o di un film,
utilizzerebbe, per procedervi, uno smartphone.
Non arriva, invece, neppure al 4,5% la
percentuale di quelli che utilizzerebbero un tablet.
Altro che mutate abitudini di consumo:
“tassare” tablet e smartphone a titolo di equo compenso da copia privata,
sarebbe straordinariamente iniquo, irragionevole ed illegittimo.
Ma non basta.
Nelle stesse ore in cui il ministro dei
beni e delle attività culturali ha pubblicato la citata ricerca di mercato,
infatti, è stato diffuso anche il report dell’organizzazione mondiale della
proprietà intellettuale sulla raccolta dell’equo compenso per copia privata in
tutta europa.
I dati contenuti nel report rendono
evidente come, per mesi, la Siae abbia letteralmente tentato di prendere in
giro il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e l’opinione pubblica
italiana inventando cifre ed utilizzando mezze verità a proprio uso e consumo.
“Occorre aumentare le tariffe dell’equo
compenso per copia privata per adeguarle alla media europea” vanno ripetendo,
da mesi, i vertici della Siae, con in testa il Presidente, Maestro Gino Paoli.
Uno spot ad effetto che, ad un certo punto,
al Ministero era stato, persino, preso sul serio.
Peccato solo che a leggere il report si
scopra che, nel 2012, in Italia si è raccolto più equo compenso per copia
privata che in ogni altro Paese europeo, eccezion fatta per la sola Francia e
le tariffe dell’equo compenso già vigenti in Italia sono di gran lunga
superiori alla media europea con le sole eccezioni di quelle relative agli
smartphone e ai tablet in relazione alle quali, tuttavia, deve essere
segnalato, che sono una manciata i Paesi nei quali è previsto un apposito
compenso.
Ma c’è un altro dato che lascia senza
parole: nel 2012, in Europa, sono stati raccolti complessivamente, a titolo di
equo compenso per copia privata 380 milioni di euro mentre la Siae avrebbe
preteso che, nel 2014, nella sola Italia, venisse raccolto un equo compenso
superiore ai 200 milioni di euro.
Quanto accaduto è di inaudita gravità ed è
indispensabile, a questo punto, non solo che il ministro Franceschini, nel
disporre l’eventuale adeguamento delle tariffe dell’equo compenso, tenga conto
di quanto, finalmente, venuto alla luce ma anche che chieda conto a Siae della
gravità delle dichiarazioni sin qui rese nel tentativo di ottenere la sua firma
in calce ad un Decreto che, in maniera del tutto ingiustificata, avrebbe
spostato un fiume di denaro dai consumatori all’industria musicale e
cinematografica senza nessuna valida giustificazione.
Fino a prova contraria Siae è un ente
pubblico economico sottoposto al controllo della Presidenza del Consiglio dei
Ministri e del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e non è
ammissibile che un soggetto del para-Stato incaricato di svolgere compiti e
funzioni di tanto grande rilievo pubblicistico giochi a “prendere in giro” lo
Stato, trasformando un processo di regolamentazione in una trattativa da
mercato.
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