da: la Repubblica
Le pietanze saporite sono
il siluramento di Pietro Scaroni, che dopo tre mandati da ad dell’Eni, ha fatto
carte false per essere riconfermato
Non passerà alla storia come Ivan il
Terribile che liquidò la casta feudataria boiarda. Ma Matteo Renzi, per la prima
volta, ha cominciato a lesionare il sistema troppo spesso tentatore del vero
potere, quello che il capitalismo di Stato esercita tra finanza e politica,
energia e diplomazia, commesse militari e servizi segreti.
La battaglia sotterranea è stata estenuante,
ma i risultati non sono irrilevanti persino per chi pensava che il presidente
del Consiglio si potesse rivelare un dilettante allo sbaraglio, accerchiato
dall’eterna oligarchia”networked”, legata da fili spesso invisibili tesi in
tutte le direzioni. Invece il cambiamento c’è stato, se non con una
“rottamazione selvaggia”, almeno con una “rottamazione di compromesso”.
Un’ecatombe diciamo “equilibrata”, che ha cercato di salvare i complessi
equilibri politici, anche se Forza Italia a questo punto si dichiara
imbufalita.
Le pietanze saporite sono il siluramento di
Pietro Scaroni, che dopo tre mandati da amministratore delegato dell’Eni ha
fatto carte false per essere riconfermato o almeno per trasferirsi alla
presidenza, e la nomina di quattro donne nelle quattro principali presidenze:
Emma Marcegaglia all’Eni, Patrizia Grieco all’Enel, Luisa Todini alle Poste e
Katia Bastioli a Terna. Al “genere” femminile toccano ruoli non operativi, ma
meglio di niente ma soprattutto meglio dell’assalto degli ambasciatori
Giampiero Massolo e Gianni Castellaneta, che il network berlusconiano di Gianni
Letta aveva messo in campo dopo aver visto che le cose si mettevano male. Per
la conferma di Paolo Scaroni la potenza di fuoco messa in campo è stata ad alzo
zero persino più forte rispetto ai tempi della lottizzazione selvaggia, nel
tentativo di abbattere le difese di Renzi. Non solo Berlusconi, Gianni Letta e
il solito Bisignani, ma un grande e consolidato pezzo di establishment di tutti
i colori. Nel comitato di Spencer Stuart, una delle società incaricate di
deliberare le candidature, si era fatto cooptare Gianni Letta, ma c’era pure
Enrico, che si dice fosse favorevole a molte riconferme, compresa quella di
Scaroni nel ruolo di presidente. La vulgata vuole persino che l’accelerazione
del sindaco di Firenze nella scalata a Palazzo Chigi sia stata accelerata
proprio dall’imminenza delle nomine. Scaroni non ha esitato a buttarsi in
trincea anche in prima persona, con stile meno sobrio rispetto a quello dell’ex
presidente dell’Enel Fulvio Conti. Prima con un peana al nuovo presidente del
Consiglio: “Quel che mi piace di Renzi – ha vergato – è la sua volontà di agire
e agire velocemente, ha impeto, è davvero una persona che vuole riformare il
paese”. E Renzi agì. Poi con un’imboscata organizzata da Bruno Vespa, del noto
network berlusconiano, che lo ha fatto trovare in trasmissione al presidente
del Consiglio. Infine con una raffica di interviste e marchette internazionali:
Financial Times, Wall Street Journal, Reuters.
“Mi lasci dire – ha sospirato in
un’intervista italiana – che questo feticcio della scadenza per me è
incomprensibile. In tutto il mondo i manager non si ricordano neanche quando
scadono. La scelta non si fa guardando al primo, al secondo o al quarto mandato”.
Niente di più falso come certifica proprio il Board Index della Spencer Stuart,
che rivela come nel 62 per cento delle principali società mondiali gli
amministratori delegati non durano più di 6-10 anni e nel 18 per cento meno di
cinque anni. Gli ultra sessantacinquenni come Scaroni sono poi fuori senza
eccezioni dai ruoli operativi, anche se non hanno carichi pendenti e sei
problemi di onorabilità, come capita al manager vicentino. Ma si sa, in Italia
le buone prassi di corporate governance, nel pubblico come nel privato, sono un
fastidioso optional.
Se chiedete a Matteo Renzi vi dirà che
sulla scelta del nuovo capoazienda
dell’Eni Claudio Descalzi, che vale più di qualunque ministero, ha pesato
non solo l’impressione che gli ha fatto la persona, ma anche che il premier del Mozambico gli ha detto che
è l’unico italiano di cui conosceva il
nome. Se è per questo è anche sposato con una principessa congolese. Ma è una
mezza verità perché Descalzi in realtà è stato il più fidato collaboratore di Scaroni per otto anni e il suo nome era
l’ultima trincea di arretramento dell’esercito scaroniano. Quale tasso di innovazione sarà possibile con
lui?
Certo quattro
donne presidenti con Katia Bastioli a Terna sono un bel trofeo per Renzi, anche se in fondo la
pesca è avvenuta sotto l’”effetto Grand
Hotel”, cioè la porta girevole
che vede transitare i soliti noti o, in questo
caso, le solite note: l’ex presidente della Confindustria Emma Marcegaglia,
che non ha mai avuto ruoli chiave nell’azienda di famiglia, e l’ex parlamentare
Luisa Todini, anche lei di una dinastia imprenditoriale, ma collocata nel
consiglio della Rai, alle Poste con Francesco Caio. Francesco Starace operativo
all’Enel è invece “discontinuo” rispetto al predecessore, visto che è stato tra
i suoi oppositori interni. Alessandro Pansa in Finmeccanica ha pagato la lunga
convivenza con Pier Francesco Guarguaglini, mentre il presidente Gianni De
Gennaro, confermato, ha goduto dell’appoggio di Giorgio Napolitano. Del resto,
non è solo l’Eni, come si è fatto scappare Renzi, intrinseco ai Servizi
segreti, ma anche la Finmeccanica che vende armi nel mondo.
Mauro Moretti, infine, lasciando sguarnite
per ora le Ferrovie, dovrà cimentarsi piuttosto con la Ansaldo Breda e chissà
se riuscirà a spuntare uno stipendio analogo a quello che prendeva. Le
presidenti dovranno accontentarsi di 230 mila euro. Gli amministratori maschi
chissà. I loro predecessori Scaroni, Conti e Cattaneo hanno incassato tutti
insieme in nove anni oltre 100 milioni, quasi la metà dei quali finiti nelle
tasche del manager di Vicenza. Ora si potranno consolare con le liquidazioni,
chi dice 25, chi – più realisticamente – 45 milioni. Tutto sommato una Buona
Pasqua.
Renzi non avrà creato il migliore dei mondi
possibili nell’italico capitalismo di Stato, ma per la prima volta ha tagliato
qualche unghia a quei “funzionari privilegiati – come li chiamava Ernesto Rossi
– che fanno liberamente nei loro feudi burocratici quel che meglio credono con
i quattrini dei contribuenti”.
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