da: Il Foglio
La
lezione del Ruanda è già dimenticata, dopo soli 20 anni
di Paola
Peduzzi
Il genocidio in Ruanda, ricordato in questi
giorni nel suo ventennale, rappresenta il cosiddetto attimo di lucidità nella
storia della dottrina di politica estera dei liberal americani. A lungo ci fu
difficoltà, nella Casa Bianca di Bill Clinton, a definire quel che stava
accadendo in Ruanda come un “genocidio”. C’erano task force dedicate,
un’attenzione mediatica accurata sulla questione, continui appelli alla fine
delle violenze, ma nessuna volontà di impegnarsi in quello scontro tra tribù in
cui gli americani pensavano di non aver alcun interesse in gioco. Era una
strage umanitaria, ma la difesa di un popolo in nome dei diritti umani era
considerata una missione per gli attivisti, non per dei governi, o degli
eserciti.
Quando l’Amministrazione americana capì che era in corso un genocidio e lo definì in quel modo, i democratici si convinsero anche che non avrebbero più lasciato che nel mondo accadessero stragi di quella portata senza fare nulla. Era la nascita della dottrina dell’interventismo liberal che trovò la sua prima espressione concreta nella guerra a Milosevic in Serbia (in quell’occasione
anche l’Italia di D’Alema partecipò alla missione). “Mai più” è un ritornello
che in questi giorni di rimembranza s’è sentito spesso: c’è un libro che quel
“mai più” lo racconta con i nomi e le facce. Si chiama “A problem from hell”
e l’ha scritto Samantha Power, oggi ambasciatrice dell’America obamiana
all’Onu. E’ un libro molto bello e molto intenso, che ha fatto a lungo
discutere l’establishment democratico americano, perché spiega come sempre gli
Stati Uniti abbiano avuto la tendenza a voltarsi da un’altra parte quando
c’erano stragi umanitarie in corso. La Power citava anche Susan Rice, che oggi
è a capo della Sicurezza nazionale di Obama, come una di quelle che più
fortemente cercò di rifiutare l’idea di “genocidio” e che poi se ne pentì
grandemente (Rice si offese parecchio per quella citazione, le due non si
parlarono per un po’, oggi sono tornate molto amiche).
Il Washington Post ha pubblicato nel weekend un lungo ritratto della Power, in cui lei racconta la sua vita all’Onu, racconta come sia diverso parlare da fuori – da giornalista, da attivista – e poi cercare di fare qualcosa quando sei dentro a un’Amministrazione, racconta anche di quanto sia impegnata, dell’allattamento dei suoi figli tenendo un telefono in ogni mano, di quella santa che è la sua babysitter e che le fa sospendere ogni giudizio su quanto sia facile o difficile fare carriera mentre si fa anche le mamme. Soprattutto però la Power cerca di giustificarsi. Dice che il mondo continua a girarlo, che le stragi umanitarie continua a combatterle, dice dell’ultima volta che è stata nella Repubblica centrafricana, di quanto sia difficile vedere certe situazioni e sapere che risolverle sarà lungo e doloroso.
Alla Siria, che è la grande strage umanitaria in corso in questi anni, Power dedica soltanto qualche parola di scusa, dicendo che tutti quelli che si aspettavano che avrebbe tenuto il punto sull’intervento in Siria “saranno oggi delusi”. Più che la delusione bruciano i 150 mila morti, le armi chimiche usate dal regime di Assad, l’“oscenità morale” denunciata a parole e poi lasciata perpetrarsi nei fatti. Più che la delusione brucia il fatto che dopo vent’anni, solo vent’anni!, la lezione del Ruanda è già stata dimenticata. Perché se la si volesse applicare, “mai più” è ora in Siria.
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