da: la Repubblica
Ho scoperto in questi giorni di detenere da
anni un potere immenso. Faccio parte di un “manipolo di professoroni”
(così veniamo graziosamente apostrofati) che è riuscito nell’impresa di sconfiggere le velleità riformatrici di
Craxi e Cossiga, di D’Alema e Berlusconi, e oggi intralcia di nuovo ogni
innovazione. Usiamo un’arma impropria — “la Costituzione più bella del
mondo” — per terrorizzare politici pavidi e cittadini timorati.
So bene che al grottesco, alla mancanza di
senso delle proporzioni, all’assenza di informazioni accurate è difficile porre
ragionevoli limiti. Ma qualche chiarimento può essere utile, per evitare che
venga inquinata una discussione che si vorrebbe seria.
Comincio proprio da quel riferimento alla
Costituzione più bella del mondo, che viene usato con toni di dileggio e per
accusare di testardaggine conservatrice chi critica questa o quella proposta di
riforma, o meglio i tentativi di stravolgimento del testo costituzionale. Ora,
quelle parole vengono da una fantasiosa uscita di Roberto Benigni, ma non sono
mai state la bandiera di chi ha riflettuto sulla Costituzione con la guida di
Costantino Mortati e Carlo
Esposito, di Massimo Severo Giannini e Leopoldo Elia.
Ed è falso che vi sia stato un irragionevole arroccamento intorno
all’intoccabilità della Costituzione. È notissimo, invece, che si è insistito
sull’obbligo di rispettarne principi e diritti, mentre si avanzavano proposte
per una “buona manutenzione” della sua seconda parte. Mi limito a ricordare
solo quello che io stesso e molti altri suggerimmo quando il governo Letta si
imbarcò nella rischiosa, e fallita, impresa di modificare l’articolo sulla
revisione costituzionale. Si disse che sarebbe stato opportuno cominciare
subito, senza forzare quell’articolo, dai punti sui quali già si era formato un
largo consenso — dunque dalla riduzione del numero dei parlamentari e dal
superamento del bicameralismo perfetto, per il quale esistevano proposte
ragionevoli, ben lontane da quelle sgrammaticate che circolano in questi
giorni. Se quel suggerimento fosse stato seguito, oggi molto probabilmente già
avremmo portato a compimento questa significativa riforma.
Facendo una veloce ricerca in rete, non sarebbe stato difficile trovare le
molte riforme proposte anche dal mondo di chi critica le riforme costituzionali
della fase cominciata con il governo Letta. Invece, tutta l’acribia filologica
è stata impiegata per cogliere in flagrante peccato di contraddizione il noto Rodotà,
reo di aver firmato nel 1985 una proposta di riforma in senso monocamerale.
Purtroppo il ricorso a questo argomento è, all’opposto, la prova evidente di
quanto profonda sia ormai la regressione culturale nella quale sono caduti
molti che intervengono nella discussione pubblica. Quella proposta veniva fatta
in un tempo in cui il sistema elettorale era quello proporzionale, i
deputati erano scelti con il voto di
preferenza, i regolamenti
parlamentari rispettavano i diritti
delle minoranze, non prevedevano “ghigliottine”, costrittivi
contingentamenti dei tempi, limiti alla presentazione degli emendamenti. Erano
i tempi in cui l’ostruzionismo della sinistra fece cadere in prima battuta il
decreto con il quale Craxi tagliava i punti di contingenza e il Parlamento
svolgeva grandi inchieste come quella sulla loggia P2. Quella proposta (n. 2452
della IX legislatura) era stata scritta da un costituzionalista di valore come
Gianni Ferrara e andava nella direzione assolutamente opposta rispetto alla
linea attuale. Voleva riaffermare nella sua pienezza la funzione
rappresentativa del sistema parlamentare, assicurata da una forte Camera dei
deputati che garantiva gli equilibri costituzionali e si opponeva alle
emergenti derive autoritarie, alla concentrazione del potere nel governo.
Nasceva dall’idea della centralità del Parlamento, rispondeva all’ineludibile
diritto dei cittadini di essere rappresentati, che è alla base della sentenza
con la quale quest’anno la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
del Porcellum.
Oggi, invece, l’Italicum deprime la rappresentanza, le proposte relative al
Senato sono un pasticcio, e tutto confluisce in un sostanziale
antiparlamentarismo, alimentato da artifici ipermaggioritari che fanno correre
il rischio di una nuova dichiarazione di incostituzionalità.
Chi cerca proposte sulla riforma del
Senato, com’è giusto che sia, può attingerne alla bella intervista su questo
giornale di Gustavo Zagrebelsky o al disegno di legge presentato dai senatori
Walter Tocci e Vannino Chiti, entrambi del Pd. La verità è che non sono le
proposte ad essere mancate. Non si vuol riconoscere che da anni si fronteggiano
due linee di riforma costituzionale, una neoautoritaria e una volta a mantenere
ferma la logica democratica della Costituzione, senza ignorare i punti dove le
modifiche sono necessarie. Ora il confronto è giunto ad un punto critico, ed è
bene che tutti ne siano consapevoli.
Chi sinceramente vuole una Costituzione
all’altezza dei tempi, e delle nuove domande dei cittadini, non deve cercare
consensi con appelli populisti. Deve essere consapevole della necessità di
ricostruire le garanzie e gli equilibri costituzionali alterati dal passaggio
ad un sistema già sostanzialmente maggioritario. Deve riaprire i canali di
comunicazione tra istituzioni e cittadini, abbandonando la logica che riduce le
elezioni a investitura di un governo che risponderà ai cittadini solo cinque
anni dopo, alle successive elezioni. Ricordate la critica estrema di Rousseau?
“Il popolo inglese ritiene di essere libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto
durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena quelli sono eletti, esso è
schiavo, non è nulla”. Rousseau è lontano, è impossibile ridurre i cittadini al
silenzio tra una elezione e l’altra, perché troppi sono ormai gli strumenti per
prendere la parola. Se si vuole sfuggire alla suggestione che la Rete sia
tutto, alle ingannevoli contrapposizioni tra democrazia rappresentativa e
democrazia diretta, bisogna lavorare per creare le condizioni costituzionali
perché queste due dimensioni possano essere integrate, come già cerca di fare
il Trattato europeo di Lisbona. Le proposte non mancano, a partire da quelle
sulle leggi d’iniziativa popolare (ne parlo dal 1997, e ora sono arrivate in
Parlamento).
Le
semplificazioni autoritarie sono ingannevoli, la concentrazioni del potere
nelle mani del solo governo, o di una sola persona, produce l’illusione
dell’efficienza e il rischio della riduzione della democrazia. Si
sta creando una pericolosa congiunzione tra disincanto democratico e pulsioni
populiste. Vogliamo parlarne, prima che sia troppo tardi, e agire di
conseguenza?
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