da: Il Fatto Quotidiano
Ci sono volte in cui la politica – quella
che si scrive con la “p” minuscola perché non merita di più – lascia senza
parole per la sua straordinaria capacità di camminare all’indietro,
allontanandosi da valori come la trasparenza, il confronto e l’equilibrio cui,
invece, dovrebbe ispirare il proprio agire.
Uno di questi casi è quello del Decreto
sulla cosiddetta “copia privata” ovvero sulla montagna di
soldi che, ogni anno, i consumatori italiani – e non solo – pagano quando
acquistano telefonini, computer ed ogni altro genere di dispositivo o supporto
[hard disk, pendrive, cd e dvd, ndr] astrattamente idoneo ad ospitare copie di
opere musicali o cinematografiche legittimamente acquistate.
La legge attribuisce al Ministero dei beni
e delle attività culturali il compito di determinare le tariffe di tale
cosiddetto “equo compenso” tenendo conto, tra l’altro, dell’evoluzione
tecnologica e delle dinamiche di mercato.
Quello che è, sin qui accaduto, in questa
brutta storia italiana è che sul finire dello scorso anno, il Ministero dei
beni e delle attività culturali stava, letteralmente, per essere “raggirato” da
quanti – in testa la Siae, la società italiana autori ed editori – per ovvie
ragioni, vorrebbe che le tariffe in questione fossero fissate in cifre
astronomiche, così da garantirsi cospicui incassi che,
secondo le stime
all’epoca in circolazione – mai smentite da nessuno – avrebbero alleggerito le
tasche dei consumatori italiani di circa 200 milioni di euro.
Un fiume di denaro dragato dal mercato
delle tecnologie e riversato nelle tasche delle grandi etichette della musica e
del cinema e, solo in parte, in quelle degli autori o, meglio, di alcuni degli
autori secondo alchimie e formule magiche ignote ai più.
La Siae – che dall’attività di incasso e
ripartizione della copia privata ricava, ogni anno, a titolo di “rimborso
spese”, milioni e milioni di euro, in proporzione, appunto, al volume
complessivo di quanto incassato – si era, persino, spinta a “precompilare” una
bozza del decreto, inserendo essa stessa, in rosso, gli importi delle tariffe
che il Ministro avrebbe dovuto stabilire.
Solo il buon senso e l’equilibrio dell’ex
Ministro dei beni e delle attività culturali, Massimo Bray e, probabilmente, la
sua acquisita conoscenza degli ingranaggi del sistema e delle loro “debolezze”,
avevano, all’epoca, evitato
il “fattaccio” e scongiurato il rischio che il Ministero
anziché arbitro e compositore dei contrapposti interessi – quelli di titolari
dei diritti, consumatori ed industria tecnologica – si trovasse a giocare il
ruolo di braccio armato degli interessi di una sola parte.
Massimo Bray, infatti, aveva invitato le
parti interessate attorno ad un tavolo ed aveva annunciato l’intenzione di
commissionare una ricerca di mercato allo scopo di capire se e quanto, in
effetti, i consumatori italiani utilizzano, tra gli altri, smartphone e tablet
– tra i dispositivi destinati ad essere più colpiti dagli aumenti delle tariffe
“suggeriti” dalla Siae -, dando a tutti appuntamento all’esito della ricerca
per condividerne i risultati e valutare il da farsi.
La ricerca di mercato era poi stata davvero
commissionata ed i risultati sono, ormai da mesi, arrivati al Ministero dei
beni e delle attività culturali.
Il cambio di Governo ha, sfortunatamente,
interrotto il virtuoso processo avviato da Massimo Bray e, ora, si apprende che
il neo-Ministro, Dario Franceschini, anziché proseguirlo avrebbe deciso di non
pubblicare – così come sarebbe ovvio – i risultati della ricerca e di varare il
Decreto secondo i desiderata della Siae, magari, con qualche piccolo “sconto”,
nel tentativo di non scontentare troppo l’industria di smartphone, tablet e Pc.
E’ una brutta storia italiana.
Un Ministero che “sventato” il tentativo di
una lobby di hackerare le proprie dinamiche di buon governo, dapprima imbocca
la strada giusta ovvero quella della trasparenza e del dialogo e poi, ci
ripensa, torna sui suoi passi e si lascia tirare per la giacchetta, alla
maniera di sempre, da chi è capace di “tirare più forte”.
Perché il Ministero non pubblica sul
proprio sito Internet i risultati della ricerca commissionata dall’allora
Ministro Massimo Bray? Cosa ha da nascondere? Forse quella ricerca dice l’ovvio
ovvero che i consumatori italiani pur usando smartphone e tablet per ascoltare
musica e guardarsi film non li usano così tanto come racconta Siae per farsi
quelle copie private che solo giustificano le esose tariffe che si vorrebbero
stabilire nel nuovo decreto?
Un sospetto fondato se solo si guarda a
qualche numero che, probabilmente, al ministro Franceschini non è stato neppure
raccontato.
Le nuove tariffe, porterebbero a prelevare,
dalle tasche dei consumatori italiani, ogni anno, a titolo di cosiddetto equo
compenso per copia privata circa 200 milioni di euro mentre secondo la
Commissione europea – anche se il dato si riferisce al 2012 – in tutta Europa,
allo stesso titolo, vengono incassati 600 milioni di euro.
Possibile che nella sola Italia debba
pagarsi oltre il 30% di quanto si paga complessivamente nei 23 dei 28 Paesi
europei nei quali esiste l’equo compenso?
Il neo Ministro dei beni e delle attività
culturali, dovrebbe fermarsi subito, pubblicare i risultati della ricerca di
mercato commissionata dal suo predecessore e, poi, con modalità scientifica e
condivisa con tutti gli stakeholder decidere il da farsi.
La responsabilità politica di ogni
decisione di un Ministro è una cosa sacrosanta ma l’arbitrio assoluto – specie
se “teleguidato” dalla “parte” che tira più forte e che in una vicenda un
interesse personale – è un male del quale la nostra democrazia soffre da tempo
immemorabile.
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