da: la Repubblica
La premessa è che vorremmo poterci fidare
della polizia. Dovremmo. La polizia rappresenta lo Stato, e lo Stato siamo noi.
Lo Stato sono le istituzioni che rappresentano i cittadini e sono i cittadini
che delegano altri cittadini a rappresentarli, col voto democratico.
In un regime democratico le istituzioni
sono al servizio di chi dà loro mandato ad esercitare un potere di governo e
non viceversa. Lo Stato ci tutela dalle ingiustizie e dai soprusi, non li
esercita. Questo è quello che insegniamo ai nostri bambini a scuola, fin dalle
elementari.
Sabato scorso si è svolta a Roma una
manifestazione che aveva come oggetto, appunto, il diritto alla casa. Le
immagini degli scontri e delle violenze sono lì, non c’è molto da commentare.
In alcune si vedono manifestanti vestiti di nero con gli elastici delle fionde
tesi, in altre poliziotti, ugualmente vestiti di nero, che colpiscono coi
manganelli e prendono a calci persone disarmate e già a terra. Nell’epoca dei
telefonini, nel tempo in cui di ogni evento ci sono decine e decine di filmati
c’è davvero poco da discutere: i fatti sono questi.
Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce
con l’offesa, ha torto per principio chi
prova a dimostrare che la
“provocazione” è partita dalla piazza, in molti lo fanno in queste ore —
provano a mostrare che, come direbbe un bambino, “hanno cominciato loro”. È
questo il senso delle parole del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro,
intervistato oggi da Carlo Bonini: contesta il capo della Polizia Alessandro
Pansa che aveva definito l’artificiere che ha calpestato la ragazza a terra «un
cretino da identificare». Non un cretino, dissente Pecoraro, ma «uno che dava
una mano ai suoi colleghi». Come se fossero due eserciti che, sullo stesso
piano, si affrontano. Questo è l’equivoco, se di buona fede si tratta: che sia
una battaglia combattuta ad armi pari tra pari, dove ci si dà manforte fra
eserciti contrapposti, e non quel che è, invece. Da una parte cittadini che
manifestano, dall’altra esponenti delle istituzioni che rappresentano anche
quei cittadini, e che sono chiamati a tutelare l’incolumità di tutti: anche dei
manifestanti.
È dal G8 di Genova che si è persa questa
nozione elementare. È lì, nelle molotov messe ad arte a posteriori per
giustificare l’assalto alla scuola Diaz, la ferita originaria mai più
rimarginata. Abusi e violazioni da parte di chi dovrebbe per mandato garantire
la sicurezza di tutti sono poco a poco, omeopaticamente, divenuti una
circostanza di fatto. Senza arrivare al rosario di morti che da Giuliani passa
per Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi; senza difendersi dietro la retorica delle “mele marce”, ché come dice l’ex capo
dell’ispettorato di polizia inglese John Woodcock: «Non credo nelle mele marce,
il problema non riguarda un’individuale predisposizione alla trasgressione ma
un deficit strutturale, culturale».
Il problema non è, in fondo, neppure il
singolo episodio di abuso: la vera questione è quale sia la reazione
istituzionale all’abuso. Nel caso delle piazze come delle curve calcistiche:
quale la risposta di chi detiene il potere alla violazione e all’abuso di
potere. Non si hanno segnali, sinora, di una levata di scudi di chi dovrebbe e
potrebbe evitare la violenza in divisa. Al contrario, ogni richiesta di
identificare le “mele marce”, per esempio con un numero che consenta di
riconoscere gli agenti anonimi come in molti Paesi del mondo accade, è stata
accolta quasi come una provocazione. Da ministri di precedenti governi, dai
sindacati di polizia — da ultimo, qualche giorno fa, Franco Maccari del Coisp
ha bollato il numero identificativo come una proposta sciocca e inutile. Sono
molti però — La maggioranza? — i poliziotti a disagio. Sono molti gli agenti
che non si riconoscono in questa difesa corporativa, che prendono le distanze
dalla logica degli eserciti contrapposti. Noi e loro, noi contro di loro.
Proprio per non fare di ogni erba un fascio, proprio per dare atto a chi fa il
suo dovere per uno stipendio infimo, proprio per chi veste una divisa con
coraggio e dignità sarebbe indispensabile, invece, adottare strumenti che
consentano di identificare i violenti protetti dall’uniforme. E chiamare alle
loro responsabilità i violenti senza uniforme, evidentemente. Per il bene di
tutti. Dello Stato, cioè di tutti.
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