da: Il Fatto Quotidiano
Equo compenso: il governo
(e Franceschini) al banco di prova
di
Guido Scorza
Potrebbe essere la Waterloo del ministro
dei beni e delle attività culturali, Dario Franceschini e potrebbe
rappresentare una bocciatura – senza appello – per il governo di Matteo Renzi.
Secondo voci che si rincorrono con sempre
più insistenza nei corridoi del Ministero dei beni culturali ed in quelli della
sede Siae di viale della Letteratura, infatti, il Ministro Franceschini sarebbe
in procinto di firmare un decreto
con il quale disporrebbe il raddoppio o,
addirittura, la triplicazione delle tariffe del c.d. equo compenso per copia privata, ovvero l’importo – in più rispetto al prezzo di
vendita – che i consumatori italiani devono pagare ogni volta che acquistano un supporto o un dispositivo
(smartphone, tablet, pc) astrattamente idoneo ad essere utilizzato, tra
l’altro, per registrare una copia di un brano musicale o di un film già
regolarmente acquistati.
Stiamo parlando di un fiume di denaro – tra i 150 ed i 180 milioni di euro - che dalle
tasche dei consumatori italiani spiccherebbe il volo verso i forzieri della
Siae per essere poi distribuito tra le varie categorie di aventi diritto,
inclusi gli autori, ad alcuni dei quali – secondo criteri per la verità niente
affatto trasparenti – spettano briciole più o meno importanti.
Ma non sono i numeri che potrebbero far sì
che la vicenda rappresenti una grossa buccia di banana per il ministro
Franceschini e per l’intero governo.
Il
punto è il metodo, quello – per la verità assai poco
scientifico e rassicurante – stile “Repubblica 1.0” che il ministro dei Beni e
delle attività culturali ha sin qui adottato nella gestione del dossier,
ereditato dal suo predecessore Massimo Bray che, tuttavia, lo aveva gestito in
ben altra maniera e con approccio scientifico e condiviso.
Il “metodo
Franceschini” – difficilmente conciliabile con quello “2.0” al quale il premier Matteo Renzi sembra voler
ispirare la gestione della cosa pubblica – infatti, sta scontentando un po’
tutti tranne, ovviamente, la Siae che dall’aumento dell’equo compenso a cifre
da capogiro, ricaverebbe milioni di euro – sebbene solo a titolo di “rimborso
di spese di gestione” assai poco documentate –.
Altroconsumo, una delle più
rappresentative associazioni di consumatori italiani, con oltre 300 mila
associati ha appena presentato al ministro un’istanza
con la quale chiede di accedere ai risultati della ricerca di mercato
commissionata dall’ex ministro Bray per capire se e quanto le nuove tariffe
sull’equo compenso che la Siae vorrebbe che il Ministero adottasse siano
davvero giustificate dall’uso che i consumatori italiani fanno di smartphone,
tablet, pc ed altri supporti e dispositivi.
Si tratta di un documento che, in realtà,
avrebbe dovuto essere, da tempo, reso pubblico e che, al contrario, i dirigenti
del Ministero ed il loro nuovo ministro custodiscono come se si trattasse della
formula segreta della Coca Cola.
Ma i consumatori che, pure, sono quelli sui
quali minaccia di abbattersi il salasso del compenso che potrebbe essere
difficile definire “equo”, non sono i soli a bacchettare il Ministro.
Infatti il “metodo Franceschini” preoccupa
anche l’industria Ict italiana che fa davvero fatica a capire come e perché un
Governo che, a parole annuncia di voler investire in innovazione, internet e
digitale, nei fatti non si faccia scrupoli ad aumentare in modo irrazionale le tariffe
dei supporti e dispositivi sulla cui produzione e commercializzazione
l’industria dovrebbe costruire le fondamenta del proprio futuro e di quello del
Paese. Tutto ciò ancor prima di presentare una qualsiasi strategia per
l’attuazione dell’agenda digitale.
Confindustria Digitale, Anitec e
Assotelecomunicazioni – Asstel nei giorni scorsi hanno chiesto al ministro di
fermare la biglia che sta rotolando inesorabilmente verso la firma del decreto
per condividere con tutti gli stakeholder metodo e dati cui ispirare le nuove
tariffe in modo da ancorarli a presupposti rigorosi e scientifici.
Consumatori ed industria, in un’alleanza
più unica che rara, marciano uniti non contro il diritto d’autore ma contro il
modo – più da mercato che da governo della cosa pubblica – con il quale, al
Ministero, vorrebbero applicarlo.
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