da: Il
Sole 24 Ore
Chiedi chi erano gli Squallor. In un documentario rivivono i padri del rock demenziale
di Francesco Prisco
C'erano
una volta quattro serissimi insider dell'industria discografica italiana degli
anni Sessanta e Settanta. Gente colta e di gusti raffinati. Di giorno qualcuno
di loro scriveva testi per Massimo Ranieri, qualcuno componeva musiche per
Little Tony, qualche altro regalava hit internazionali a Tom Jones, qualche
altro ancora aveva una relazione con Mina.
Di notte
s'incontravano e dissacravano amorevolmente quanto di serio avevano potuto fare
fino a un minuto prima. Chiudendosi in uno studio di registrazione e sfornando
pezzi a base di turpiloquio come «'O camionista», «Berta», «Non mi mordere il
dito» e soprattutto l'incontenibile «Cornutone».
È
l'anti-storia della musica leggera di casa nostra o, se preferite, la storia
degli Squallor, primo gruppo rock demenziale d'Italia e in tutta probabilità
prima ghost band del mondo. Perché nel 1972, due anni prima dei Residents e con
un lustro di secolo d'anticipo rispetto ai Gorillaz, nei negozi di dischi di
Roma, Milano e Napoli ci si chiedeva chi si nascondesse dietro lo sboccatissimo
complesso autore dell'album «Troia», omerico ma non troppo. La risposta?
Quattro colonne portanti della Cgd, gloriosa etichetta discografica milanese di
Ladislao Sugar: il chitarrista e compositore Totò Savio, i parolieri Daniele
Pace e Giancarlo Bigazzi, nonché il produttore Alfredo Cerruti, l'unico rimasto
in vita di quanti presero parte all'esaltante avventura degli Squallor.
Il
documentario in concorso a Napoli
La loro
sfacciata arte, nell'epoca della riproducibilità su iPod, iPad e tutto il
resto,
sembra essere caduta un pò nel dimenticatoio. Ma a ridarle lustro ci
pensa il documentario «Gli Squallor» che oggi sarà presentato in concorso al
Napoli Film Festival. Porta la firma dei coniugi Michele Rossi (regista) e
Carla Rinaldi (sceneggiatrice), entrambi poco più che trentenni. Lui cuneese,
lei lucana, emigrati ad Amsterdam per fare del cinema una professione. «Ci
siamo innamorati della potenza immaginifica dei versi degli Squallor – racconta
la Rinaldi – e, un po' per gioco, abbiamo cominciato a raccogliere
testimonianze e materiali». Partono nel 2007 con l'aiuto di Gianni Valentino,
giornalista napoletano esperto di musica che si accolla il ruolo di produttore
esecutivo. Chiamano Ciro Ippolito, regista di tanti b-movies anni Settanta che
diresse gli Squallor nei film cult «Arrapaho» e «Uccelli d'Italia». Nel giro di
qualche giorno si ritrovano alla corte del caustico Cerruti e di Bigazzi, con
il quale condividono gli ultimi anni di vita.
Cantanti,
brutta razza
L'opera
non è un documentario stricto sensu. «Gli Squallor non avevano un'entità
fisica, – spiega la Rinaldi – non facevano concerti, né interviste in tv. Non
avevano volto, quindi non disponevamo di molto materiale filmato. Abbiamo
dovuto lavorare d'immaginazione laddove non arrivavano gli archivi». Tutto
parte dalla vicenda di un giovane consumatore di musica che si reca in un
negozio di dischi con l'intenzione di comprare chissà che e alla fine, per
colpa del carisma del commesso, si ritrova nelle mani i dischi della band
demenziale. «Poi c'è Cerruti – prosegue la Rinaldi – che gioca a poker e
dispensa aneddoti su quanto alla Cgd facevano di giorno come parolieri,
musicisti e scopritori di talenti e quanto di notte facevano come Squallor». E
il secondo lavoro completava il primo: in dischi come «Pompa», «Tromba» o «Tocca
l'albicocca» finivano spesso le parodie di temi, figure e figuri della musica
leggera italiana: «Noi frequentavamo i cantanti – dice Cerruti in un passaggio
del film - che sono i peggiori scassa-cazzi mondiali. E ci sfogavamo contro di
loro».
Un fiume
di testimonianze
Per
capire quanto l'italico immaginario musicale sia compenetrato dal verbo degli
Squallor basta vedere la lista dei testimonial che il documentario – in uscita
in dvd a febbraio con la Cni – va a scomodare: da Vinicio Capossella agli «eredi»
demenziali Freak Antoni e Rocco Tanica; da Caparezza che mostra orgoglioso il
vinile di «Mutando» a Renzo Arbore e Achille Bonito Oliva; dai reduci della
stagione della Cgd come Mara Maionchi e Don Backy a Diego Abatantuono e Stefano
Bollani. «A un certo punto – sottolinea la Rinaldi – siamo stati costretti a
dire basta alle richieste di partecipazione perché il film rischiava di
sfuggirci di mano». Il primo montaggio durava infatti qualcosa come due ore e
mezza che, nella versione definitiva, sono scese a 85 minuti.
La
coscienza del Paese
È
evidente che, per chi in Italia ha fatto e continua a fare musica, gli Squallor
rappresentano qualcosa d'importante. «Il loro status di gruppo fantasma –
spiega Gianni Valentino – deve aver contribuito al mito. Erano invisibili e
tiravano calci nello stomaco. Erano la coscienza del Paese. Spesso sporca».
Leggi il testo di «Mi ha rovinato il ‘68» e non puoi non convenire:
«Generazione maledetta la mia/ noi siamo ancora l'Italia che scia/ verso il
domani, verso il non si sa/ perché fa rima con la libertà». Amen.
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