da: Il sole 24 Ore
Giacomo
Leopardi superstar
E ora professore, qual è il suo prossimo
progetto? Chiedo a Michael Caesar salutandolo sulla porta della casa di
Cambridge dove vive assediato da una mole cospicua di classici italiani antichi
e moderni. Caesar, con quella aria caratteristica di molti studiosi inglesi,
seria e insieme sottilmente ironica, ci pensa un po' prima di rispondermi, poi
mi dice serafico: «Ricomincerò a leggere lo Zibaldone».
Chiacchierando di letteratura italiana
abbiamo commentato il successo di stampa che ha avuto l'impresa che ha appena
portato a termine insieme a Franco D'Intino, cioè la traduzione integrale dello
Zibaldone di Leopardi, pubblicato in Inghilterra da Penguin Books e negli Stati
Uniti da Farrar, Straus e Giroux. Caesar insegna all'Università di Birmingham e
D'Intino alla Sapienza di Roma ma hanno collaborato, cooordinando un'équipe di
molti traduttori, per sette anni preceduti da un lungo periodo di riflessione,
cioè da quando, nel secondo centenario della nascita del poeta nel 1998, è
stato istituita a Birmingham una cattedra di studi leopardiani che lo stesso
Caesar affidò allora a D'Intino. Ora la sfida di proporre al pubblico di lingua
inglese i pensieri lunghi duemilacinquecento pagine di un lontano autore
conosciuto solo come poeta
romantico ha avuto un esito superiore alle
aspettative, e non per modo di dire: i numerosi recensori inglesi che se ne
sono occupati – sul «Financial Times», «Sunday Times», «New Statesman», «New
York Review of Books» e su molte altre testate – parlano dello Zibaldone come
di un manoscritto ritrovato in una bottiglia, una sorta di disseppellito rotolo
di Qumran del pensiero. E non del solo pensiero italiano.
«Uno dei pensatori più radicali del
diciannovesimo secolo», definisce Leopardi il «Financial Times» accostando lo
Zibaldone agli scritti di Coleridge, Emerson, Kirkegaard e soprattutto
Nietzsche. E John Gray, nell'articolo pubblicato in copertina e precedentemente
apparso sul «New Statesman» emette la sentenza definitiva: l'edizione integrale
dello Zibaldone in lingua inglese è un «major event» nella storia delle idee. I
recensori d'oltre Manica osservano che oltre a non essere apprezzato nel mondo
come gli spetterebbe, anche in patria il pensiero di Leopardi non ha ricevuto
il giusto riconoscimento.
Giro l'osservazione a Caesar, italianista i
cui studi spaziano da Dante a Umberto Eco: «Lo Zibaldone, mi dice, in Italia
non è mai stato considerato un libro autonomo, ma sempre un punto di
riferimento per le opere di Leopardi considerate maggiori, i Canti
specialmente. Francesco Flora, che ne curò nel 1937 un'ottima edizione critica,
ne parla come di una "preparazione culturale", come della
"fatica scolastica" di un uomo di genio, di una "anteriore e men
elaborata stesura" rispetto all'opera poetica. Solo recentemente gli
studiosi italiani hanno cominciato a leggere questo speciale libro in modo
autonomo». Insomma un rovesciamento di prospettiva, cioè proporre lo Zibaldone
non come testo di servizio e Leopardi come pensatore massimo e non soprattutto
come poeta: è stata questa la ragione dell'impresa iniziata molti anni fa. «Era
una idea ambiziosa e forse non realizzabile, bisognava reperire i fondi e
soprattutto un editore. Ma non volevamo proporre scelte antologiche o
tematiche. Queste ultime non sono illegittime: è lo stesso Leopardi in uno dei
suoi indici a raggruppare per temi le sue riflessioni, suggerendo dei libri
virtuali come il "manuale di filosofia pratica" o il "trattato
delle passioni". Ma noi volevano che se ne leggesse il pensiero nella sua
totalità».
Nell'appassionata recensione sul «New
Statesman», Gray sostiene che Leopardi ha diagnosticato con sorprendente
preveggenza la malattia del nostro tempo, il mito della ragione, che, virata in
ideologia, è diventata la barbarie responsabile degli stermini del Novecento e
poi delle discutibili guerre umanitarie del secolo attuale. Su Leopardi supremo
interrogator della condizione moderna, così ancora Gray, si sono accanite anche
le fitte domande poste ai due curatori alla fine della presentazione dell'opera
all'Istituto culturale italiano di Londra, alla quale è inoltre intervenuta la
studiosa di teoria della traduzione Susan Bassnett. D'Intino mi dice a
dibattito finito – commentando l'interesse del pubblico inglese di studiosi e
studenti di letteratura, professionisti dell'editoria, bibliotecari e semplici
lettori – che il mondo anglosassone è più affine al pensiero di Leopardi di
quello italiano. «L'idealismo, a lungo dominante in Italia, è stato da noi
l'ostacolo principale al pieno riconoscimento del pensiero leopardiano: pochi
pensatori sono stati come lui così rigorosamente e costantemente poco inclini
all'idealismo. Tutta la ricerca di Leopardi riguarda il mondo così come è
percepito dai sensi, e come è costruito dall'uomo, attraverso la lingua e le
istituzioni. Non che manchino nella cultura italiana pensatori su questa linea,
per esempio Machiavelli o Vico, ma sicuramente la linea che io chiamerei
antropologico-materialistica non è stata quella dominante».
In Inghilterra la scena delle idee è
diversa: «Se si rovescia la questione, è facile capire perché Leopardi può
essere capito più agevolmente dalla cultura anglosassone. Il suo punto di
partenza esplicito è Locke, e cioè anti-innatismo, empirismo, sensismo, analisi
della formazione delle idee e del linguaggi. Hume non è mai citato, ma è
naturale che Leopardi si trovi in spontanea sintonia con lo scetticismo
moderno, visto che conosceva benissimo e apprezzava quello antico. Inoltre il
suo pensiero è ricco di elementi anche in opposizione tra loro, per esempio
elementi romantici che si intrecciano ad altri in un quadro complesso e
originale. Tutto ciò è immediatamente comprensibile alla cultura anglosassone,
abituata agli innesti e ai trapianti – si pensi a Wittgenstein, all'eredità di
Warburg – mentre la cultura italiana è stata molto più autarchica».
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