martedì 5 novembre 2013

Giacomo Leopardi superstar

da: Il sole 24 Ore

Giacomo Leopardi superstar

E ora professore, qual è il suo prossimo progetto? Chiedo a Michael Caesar salutandolo sulla porta della casa di Cambridge dove vive assediato da una mole cospicua di classici italiani antichi e moderni. Caesar, con quella aria caratteristica di molti studiosi inglesi, seria e insieme sottilmente ironica, ci pensa un po' prima di rispondermi, poi mi dice serafico: «Ricomincerò a leggere lo Zibaldone».

Chiacchierando di letteratura italiana abbiamo commentato il successo di stampa che ha avuto l'impresa che ha appena portato a termine insieme a Franco D'Intino, cioè la traduzione integrale dello Zibaldone di Leopardi, pubblicato in Inghilterra da Penguin Books e negli Stati Uniti da Farrar, Straus e Giroux. Caesar insegna all'Università di Birmingham e D'Intino alla Sapienza di Roma ma hanno collaborato, cooordinando un'équipe di molti traduttori, per sette anni preceduti da un lungo periodo di riflessione, cioè da quando, nel secondo centenario della nascita del poeta nel 1998, è stato istituita a Birmingham una cattedra di studi leopardiani che lo stesso Caesar affidò allora a D'Intino. Ora la sfida di proporre al pubblico di lingua inglese i pensieri lunghi duemilacinquecento pagine di un lontano autore conosciuto solo come poeta
romantico ha avuto un esito superiore alle aspettative, e non per modo di dire: i numerosi recensori inglesi che se ne sono occupati – sul «Financial Times», «Sunday Times», «New Statesman», «New York Review of Books» e su molte altre testate – parlano dello Zibaldone come di un manoscritto ritrovato in una bottiglia, una sorta di disseppellito rotolo di Qumran del pensiero. E non del solo pensiero italiano. 

«Uno dei pensatori più radicali del diciannovesimo secolo», definisce Leopardi il «Financial Times» accostando lo Zibaldone agli scritti di Coleridge, Emerson, Kirkegaard e soprattutto Nietzsche. E John Gray, nell'articolo pubblicato in copertina e precedentemente apparso sul «New Statesman» emette la sentenza definitiva: l'edizione integrale dello Zibaldone in lingua inglese è un «major event» nella storia delle idee. I recensori d'oltre Manica osservano che oltre a non essere apprezzato nel mondo come gli spetterebbe, anche in patria il pensiero di Leopardi non ha ricevuto il giusto riconoscimento. 

Giro l'osservazione a Caesar, italianista i cui studi spaziano da Dante a Umberto Eco: «Lo Zibaldone, mi dice, in Italia non è mai stato considerato un libro autonomo, ma sempre un punto di riferimento per le opere di Leopardi considerate maggiori, i Canti specialmente. Francesco Flora, che ne curò nel 1937 un'ottima edizione critica, ne parla come di una "preparazione culturale", come della "fatica scolastica" di un uomo di genio, di una "anteriore e men elaborata stesura" rispetto all'opera poetica. Solo recentemente gli studiosi italiani hanno cominciato a leggere questo speciale libro in modo autonomo». Insomma un rovesciamento di prospettiva, cioè proporre lo Zibaldone non come testo di servizio e Leopardi come pensatore massimo e non soprattutto come poeta: è stata questa la ragione dell'impresa iniziata molti anni fa. «Era una idea ambiziosa e forse non realizzabile, bisognava reperire i fondi e soprattutto un editore. Ma non volevamo proporre scelte antologiche o tematiche. Queste ultime non sono illegittime: è lo stesso Leopardi in uno dei suoi indici a raggruppare per temi le sue riflessioni, suggerendo dei libri virtuali come il "manuale di filosofia pratica" o il "trattato delle passioni". Ma noi volevano che se ne leggesse il pensiero nella sua totalità». 

Nell'appassionata recensione sul «New Statesman», Gray sostiene che Leopardi ha diagnosticato con sorprendente preveggenza la malattia del nostro tempo, il mito della ragione, che, virata in ideologia, è diventata la barbarie responsabile degli stermini del Novecento e poi delle discutibili guerre umanitarie del secolo attuale. Su Leopardi supremo interrogator della condizione moderna, così ancora Gray, si sono accanite anche le fitte domande poste ai due curatori alla fine della presentazione dell'opera all'Istituto culturale italiano di Londra, alla quale è inoltre intervenuta la studiosa di teoria della traduzione Susan Bassnett. D'Intino mi dice a dibattito finito – commentando l'interesse del pubblico inglese di studiosi e studenti di letteratura, professionisti dell'editoria, bibliotecari e semplici lettori – che il mondo anglosassone è più affine al pensiero di Leopardi di quello italiano. «L'idealismo, a lungo dominante in Italia, è stato da noi l'ostacolo principale al pieno riconoscimento del pensiero leopardiano: pochi pensatori sono stati come lui così rigorosamente e costantemente poco inclini all'idealismo. Tutta la ricerca di Leopardi riguarda il mondo così come è percepito dai sensi, e come è costruito dall'uomo, attraverso la lingua e le istituzioni. Non che manchino nella cultura italiana pensatori su questa linea, per esempio Machiavelli o Vico, ma sicuramente la linea che io chiamerei antropologico-materialistica non è stata quella dominante». 

In Inghilterra la scena delle idee è diversa: «Se si rovescia la questione, è facile capire perché Leopardi può essere capito più agevolmente dalla cultura anglosassone. Il suo punto di partenza esplicito è Locke, e cioè anti-innatismo, empirismo, sensismo, analisi della formazione delle idee e del linguaggi. Hume non è mai citato, ma è naturale che Leopardi si trovi in spontanea sintonia con lo scetticismo moderno, visto che conosceva benissimo e apprezzava quello antico. Inoltre il suo pensiero è ricco di elementi anche in opposizione tra loro, per esempio elementi romantici che si intrecciano ad altri in un quadro complesso e originale. Tutto ciò è immediatamente comprensibile alla cultura anglosassone, abituata agli innesti e ai trapianti – si pensi a Wittgenstein, all'eredità di Warburg – mentre la cultura italiana è stata molto più autarchica».

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