mercoledì 1 febbraio 2012

I destini incrociati di Mediaset e Rai



I destini incrociati di Mediaset e Rai
di Ettore Livini e Stefano Carli 

Il declino parallelo di Mediaset e Rai, tra pubblicità in calo, strategie che fanno acqua, i nodi politici aperti e il pasticcio delle frequenze ancora da dipanare.Il Grande Fratello e lo stop alla gara delle frequenze rischiano di mettere a dieta forzata le casseforti di casa Berlusconi. La lieve ripresa a Piazza Affari dei titoli Mediaset negli ultimi giorni non deve trarre in inganno. Il titolo ha ripreso un po’ di fiato, salendo del 6% da inizio anno e del 23% dai minimi di novembre quando il suo socio di riferimento Silvio Berlusconi ha dato l’addio alla poltrona di presidente del Consiglio. Lo stato di salute delle tv del Cavaliere resta però ancora precario. E l’unodue di inizio anno — la discesa "forzata" al 6% nel capitale di Endemol e la sconfitta politica sui nuovi canali digitali — potrebbe essere la classica goccia che fa traboccare il vaso, facendo scricchiolare per la prima volta dal ‘95 gli equilibri finanziari e familiari delle holding di Arcore.
L’austerity prossima ventura è scritta nei numeri: quasi tutte le banche d’affari hanno rivisto al ribasso le stime 2011 sui conti del Biscione. Un accurato e recentissimo studio di Mediobanca, società in cui Fininvest ha una partecipazione del 2%, prevede che Mediaset chiuda il bilancio con 256 milioni di utile netto (meno della metà dei profitti 2005), tagliando il dividendo a 15 centesimi per azione. Risultato: via Paleocapa — che solo sei anni fa riceveva dalle televisioni una cedola annua di quasi 250 milioni — rischia di staccare quest’anno un assegno bonsai di un centinaio di milioni. Spiccioli, soprattutto dopo che la sentenza del Lodo Mondadori ha quasi prosciugato la montagna d’oro di liquidità raccolta nel 2006, quando Berlusconi aveva collocato a Piazza Affari il 16,7% dei suoi network incassando la bellezza di 2,1 miliardi. Un cifra che oggi gli consentirebbe di comprarsi in Borsa il 75% di Mediaset.
Il flop di Endemol
L’ultima tegola sulla testa di Cologno è stato — dieci giorni fa — l’accordo con i creditori per la ristrutturazione del debito di Endemol. Il finale della telenovela (finanziaria) del Grande Fratello era scritto da tempo.
Mediaset, Goldman Sachs e Cyrte, i tre soci di controllo della società olandese con una quota del 33% hanno pagato troppo (2,6 miliardi) nel 2007 il produttore di format televisivi. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata molta: c’è stato il crac Lehman, i guai dei subprime, la pubblicità è crollata e i debiti (2 miliardi) caricati sulle spalle della controllata l’hanno messa ko. Il business, intendiamoci, funziona ancora: Endemol nel 2010 ha macinato 180 milioni di utili operativi. Ma gli oneri finanziari (e la pressione degli hedge fund che hanno rastrellato il debito a prezzo scontato dalle banche) hanno costretto i tre grandi azionisti ad alzare bandiera bianca. Un pool di fondi guidato da Apollo e Providence ha accettato di convertire a sconto la sua esposizione e la partecipazione di Mediaset si è diluita al 6%.
«Siamo soddisfatti dell’accordo che stabilizza la situazione dell’azienda — ha festeggiato un comunicato del Biscione — Anche perché noi restiamo l’unico socio industriale». Peccato che la diversificazione nella produzione tv sia già costato a Cologno circa 500 milioni di perdite. E che lo status di unico azionista industriale rischi di durare poco. Gli hedge fund hanno già iniziato a sondare potenziali nuovi investitori per monetizzare subito il loro blitz. Nei mesi scorsi Time Warner e l’inglese Itv si erano fatti avanti per rilevare Endemol. Le tv dei Berlusconi sono riuscite per ora a bloccare le trattative minacciando di far saltare i loro contratti di fornitura con la controllata di Amsterdam, un pacchetto di trasmissioni che garantisce un quarto dei profitti del gruppo olandese. Ma di fronte a una buona offerta, i fondi (e i potenziali compratori) potrebbero decidere di correre il rischio di consumare il divorzio definitivo da Mediaset.
I guai di Spagna e frequenze
Il problema per i network del Cavaliere è che tutti i guai stanno arrivando al pettine nello stesso momento. E che per ora da questo circolo vizioso non si veda via d’uscita. Lo stop alla gara sulle frequenze del governo ad esempio non è andato giù al Biscione, orfano del sostegno del Cavaliere da Palazzo Chigi. È probabile che Cologno riesca a ottenere dall’Agcom a parziale indennizzo del Mux mancante la possibilità di convertire la frequenza che usa oggi per la tv via telefonino in un nuovo canale digitale televisivo. Ma si tratta in ogni caso di una soluzione di ripiego.
Anche la Spagna, l’altra diversificazione non proprio felice della società, zoppica ancora. La pubblicità stagna, la crisi dell’economia di Madrid non autorizza a troppo ottimismo. E la fusione tra Antena Tre e Sexta rischia di insidiare la leadership di audience di Telecinco.
La ferita più dolorosa per Piersilvio Berlusconi è però quella della pay tv. Il figlio del premier ha giocato qualche anno fa le sue carte più pesanti sulla scommessa del digitale per arginare la concorrenza di Sky. Mediaset ha investito in questa partita quasi 1,5 miliardi con l’obiettivo di arrivare al pareggio nel 2011. Anche qui però le cose non sono andate come previsto. Il vento è girato, la guerra dei prezzi con Murdoch, specie sul calcio, ha complicato lo scenario. Morale: nel 2011 Mediaset premium dovrebbe chiudere con un passivo (secondo le stime degli analisti) ancora superiore ai 50 milioni. E nel 2012 con la recessione in Italia le cose potrebbero andare ancor peggio, visto che Mediobanca prevede per questo business un altro rosso di 80 milioni.
L’incognita degli spot
Fallite le diversificazioni, in difficoltà la pay, il Biscione non può nemmeno affidare le sue speranze alla pubblicità. Nei primi nove mesi del 2011 gli spot sulle reti sono calati del 2,9%. La frenata però dovrebbe essere accelerata negli ultimi tempi. Il consensus del mercato prevede ora un — 3,8% nel 2011 seguito da un altro — 5% nel 2012. Piove sul bagnato, visto che lo switch al digitale sta limando l’audience delle reti ammiraglie di Mediaset. Nel 2005 Canale 5, Italia 1 e Rete 4 viaggiavano nel target commerciale del prime time al 42,6%, oggi siamo al 36%.
Barclays, Kepler e altre banche d’affari hanno tagliato nelle ultime settimane la loro raccomandazione sui titoli del gruppo, già reduci da performance non brillantissime. A pagare il conto alla fine saranno le casseforti a monte di Silvio Berlusconi: Mediaset ha bruciato a Piazza Affari quasi 3 miliardi in un anno e la quota di Fininvest ha perso un miliardo di valore. Di più: le cedole in arrivo dalle tv sono da sempre la voce di entrate più consistente per finanziare le società personali dell’ex premier e dei suoi cinque figli. E il taglio del dividendo potrebbe tornare a infiammare le tensioni in famiglia sulla gestione del patrimonio di Arcore.
Si vedrà. Di certo di fieno in cascina negli anni delle vacche grasse del duopolio Raiset ne è stato messo molto: una cedola alla volta, nei portafogli delle holding personali dei Berlusconi ci sono 1,2 miliardi di liquidità, contro i 167 milioni di inizio anni ’90. Una scorta più che sufficiente per assorbire senza troppi traumi un paio d’anni di difficoltà delle tv. L’importante però, con i tempi che corrono e con i new media che iniziano a erodere il dominio delle tv tradizionali, è che Mediaset, dopo i flop degli ultimi cinque anni, riesca a trovare la strada giusta per non perdere il treno dell’innovazione. «La tv generalista non morirà mai», diceva solo fino a un paio di anni fa Fedele Confalonieri. Purtroppo (per il Biscione) oggi è chiaro a tutti che, come minimo, bisognerà iniziare a fare i conti con il suo declino.

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