martedì 28 febbraio 2012

Premi Oscar: ritorno alle origini



Oscar, lo stupore del cinema primitivo
di Alberto Barbera

Non è mai stata prodiga, l’Academy di Hollywood, con i registi innovatori. Per questo motivo non stupisce che l’unico film in lizza - L’albero della vita , di Terrence Malick - autenticamente proiettato nel futuro di un cinema libero dagli schemi del passato e dedito alla ricerca di un linguaggio tanto esclusivo quanto personale, sia uscito a mani vuote dalla cerimonia degli Oscar. Le dieci statuette, equamente suddivise fra The Artist eHugo Cabret ¸ sono il trionfo della nostalgia. In un’epoca di grandi trasformazioni, che implicano sconvolgimenti di gusti e abitudini consolidate, non stupisce che gli ultrasettantenni membri dell’Academy si siano fatti travolgere dall’emozione di due film che esaltano il piacere intatto del cinema delle origini, ancora non contaminato dalle superfetazioni del gusto e dalle raffinatezza estetiche accumulate nel corso del Novecento. D’altro canto, non sembra la nostalgia il tono dominante delle celebrazioni artistiche contemporanee, con poche eccezioni assai più dedite a ripercorrere strade battute e decantare i fasti dei decenni trascorsi, più di quanto non siano votate alla ricerca del nuovo e dell’ignoto? A meno che non si tratti, nel cinema almeno, delle inedite meraviglie del digitale e degli effetti speciali, dietro i quali traspare quasi sempre il vuoto di contenuti innovatori o, quantomeno, non del tutto stantii.

Successo annunciato, dunque, e comunque non demeritato. Perché entrambi i film - quello muto e in bianco e nero di Hazanavicius, e quello di Scorsese, ipercinetico e stracolorato - sono due ottimi film. Con molte cose in comune, al di là di ciò che in tutta evidenza li separa. Se, infatti, il primo
rimanda alla semplicità immediata del linguaggio delle origini (ma sarebbe meglio dire: del periodo che precede immediatamente l’avvento del sonoro, quando l’estetica del muto aveva raggiunto un livello di perfezione pressoché assoluta, prima di essere spazzata via dalla goffaggine dei primi esperimenti del parlato), il secondo si serve delle più sofisticate tecnologie per rivendicare il primato della meraviglia che fu dei cineasti primitivi. Entrambi sono però la dimostrazione che tutto si poteva dire e fare anche senza il colore e il sonoro, perché ciò che conta è la magia del cinema e l’insostituibile piacere delle emozioni autentiche. Non importa che Hazanavicious ci arrivi in maniera paradossale: senza cioè dar vita a una sola inquadratura, una sola situazione, una sola gag visiva che non sia una citazione di questo o quel film del passato, che non contenga il rinvio iconografico a questo o quell’attore, gli uni e gli altri sedimentati nella memoria collettiva o, se volete, nell’inconscio di ciascuno spettatore. Né importa che Scorsese rischi di farsi sopraffare dal gigantismo della macchina delle meraviglie da lui stesso orchestrata, con la complicità del pur geniale Dante Ferretti. Impossibile non cogliere, in questi due esempi di perfette operazioni di restauro destinate a fare la felicità di tutte le cineteche e i musei del cinema del mondo, la più intensa e accorata forma di evocazione nostalgica dell’epoca d’oro della pellicola in 35mm. L’elegiaca e un po’ tardiva esaltazione della supremazia dell’analogico, proprio alla vigilia della sua definitiva scomparsa, provocata dall’avvento inesorabile del digitale.

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