da: Il Fatto Quotidiano
Scuola,
test su dieci libri. Il docente: “La politica si è impadronita della storia”
Analisi
dei 10 manuali più adottati dagli istituti italiani. Emanuela Scarpellini,
docente della Statale di Milano: "Il Novecento? Tutto in 20 pagine. Uno
studente finisce di sapere tutto di Bismarck e Cavour e poco di De Gasperi o
del nostro sistema di welfare"
di Thomas Mackinson
L’Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro, che nessuno studia. La sua storia, del resto, si esaurisce in 20
pagine, figure comprese. Abbiamo tentato un esperimento sui manuali di storia
per capire come sono fatti, se sono esaustivi o presentano vuoti e zone
d’ombra, analogamente a quanto fanno le classifiche internazionali sui democracy
index. Così abbiamo preso i dieci testi più venduti tra quelli in
dotazione nelle scuole medie e superiori milanesi, segnalati in base ai
registri di cassa dello storico “Libraccio”. Li abbiamo fisicamente portati a
una docente di storia contemporanea dell’Università Statale di Milano, scelta
tra i massimi esperti in storia della cultura materiale. Emanuela
Scarpellini, già insegnate a Stanford e Georgetown, li ha passati per noi sotto
la lente e dopo quattro giorni ha emesso questa sentenza: “Il Secolo breve, per gli italiani, è diventato brevissimo. La politica si è impadronita della storia e
penalizza il futuro dei nostri giovani”.
Matita
rossa e blu in mano, allora su cosa studiano i nostri ragazzi?
Se guardiamo ai testi c’è una qualità media
accettabile e contenuti molto omogenei. Ma basta analizzare indici e
suddivisione dei capitoli per scoprire che
l’intera età contemporanea è la
vittima sacrificale della manualistica per le scuole. La storia repubblicana,
ad esempio, viene risolta in 20-25 pagine. Uno studente finisce per sapere
tutto di Otto von Bismarck o Cavour e ben poco del ruolo
dei partiti nel Novecento, di De Gasperi, di come è nato il nostro welfare di
cui tanto si discute.
A
cosa è dovuta questa miopia?
In Italia la storia è intesa sopratutto
come storia politica. Su quella più recente si attende, con prudenza a volte
eccessiva, che ci siano posizioni consolidate sul fronte ideologico prima
ancora che politico. Questo è avvenuto certamente per i totalitarismi e
non senza aspre polemiche, non ancora sulla storia repubblicana degli ultimi 60
anni su cui permane un velo interessante e interessato. Noi lo vediamo agli
esami, quando i diplomati non sanno rispondere a domande elementari, tipo:
“Cos’è il compromesso storico?”.
Chi
cancella la storia dai libri di scuola?
I manuali sono per forza il frutto di una
selezione. Il punto è che guardare la storia con l’occhio della politica è
per il nostro Paese una scelta molto infelice, visto che in questo ambito non
abbiamo dato proprio il meglio di noi. Anche quella recente è fatta di luci e
ombre, non tutti – evidentemente – vogliono ammettere le seconde insieme alle
prime. Chi scrive i manuali lo sa ed è condizionato nelle sue scelte, ben oltre
la responsabilità di rispettare il giudizio storico. I testi che produce spesso
si limitano a fare la cronaca spiccia degli avvenimenti più importanti, senza
entrare nel merito e nel contesto. E lasciano così un buco trentennale nella
memoria dei più giovani.
Come
si mette a segno un buco “da manuale”?
Trincerandosi dietro l’assunto che si può
fare storia solo dopo 30 anni dai fatti, quando si possono aprire gli
archivi. Questa scelta porta a escludere in blocco decenni di storia. Se negli
ultimi anni, poniamo, la storia politica è fatta di fatti poco rilevanti e
discutibili, ce ne sono altri di grande portata che meritano una prospettiva
storica che viene semplicemente rimossa.
Cosa
ha pensato sfogliando questi testi?
Che se uno venisse da Marte e volesse
conoscere la nostra storia attraverso i testi scolastici arriverebbe a
conclusioni distorte se non proprio false. Che la violenza nella storia, ad
esempio, resti confinata al contesto europeo e fino alla metà del ‘900 e oggi
sia perfino estinta. Nessuno, infatti, scrive delle guerre d’Africa, dei
totalitarismi in Cina o delle repressioni in Sud America in
tempi molto più recenti. La violenza invece è un tratto continuo della storia.
Due
mancanze che ritiene gravi…
Non tutti i manuali hanno quella apertura
verso l’internazionalizzazione che un giovane d’oggi deve avere. La maggior
parte è impostata sul binomio Italia-Europa come motore della storia che è
decisamente antistorico. L’Asia è un accenno, l’intera America Latina non
c’è proprio, in barba ai forti collegamenti culturali ed economici che ha col
nostro Paese. Questa rimozione, in un mondo globalizzato, può avere effetti
molto negativi sulla proiezione dei nostri studenti nel mondo, limita i loro
orizzonti e dunque le loro possibilità rispetto a studenti di altri Paesi meno
tradizionalisti.
Siamo
un popolo senza memoria?
In un certo senso sì. Ma forse è anche
peggio. La tendenza della storiografia italiana a raccontare la politica
produce una percezione distorta del ruolo che abbiamo nel mondo. E alla fine di
noi stessi. Nei manuali la società, la scienza, la cultura, l’arte e in tempi
recenti l’impresa e il made in Italy che ci fanno apprezzare nel mondo non ci
sono. Pensate a come abbiamo saputo creare un modello di cucina che esportiamo
ovunque e tanto lavoro può dare ai nostri giovani.
Quanta
importanza hanno i testi scolastici?
Molta, fanno parte di quelle esperienze che
contribuiscono a determinare l’identità di una persona, di una comunità e di
una nazione intera. Il peccato originale dell’Italia, la politica padrona della
storia, può condizionare sotto il profilo pedagogico gli studenti e alimentare
negli italiani adulti la disistima, la fatica a rapportarsi col mondo e a
intraprendere un cammino evolutivo nella pienezza della propria storia. Vince
così quel vittimismo che ci trasciniamo dalla Rivoluzione industriale, spesso
senza motivo.
E
la storia che non leggiamo cosa potrebbe raccontare?
Molte altre storie. Ad esempio che a parte
il Giappone, se stiamo alla storia, non esistono molte nazioni che abbiano
saputo industrializzarsi ed elevare il proprio benessere velocemente come
l’Italia. All’inizio del ‘900 avevamo un reddito pro-capite pari a un quarto di
quello delle altre nazioni europee. In 50 anni siamo riusciti a portarci alla
pari. In Spagna, per dire, hanno impiegato diversi decenni di più. Ma non ce lo
raccontiamo mai, neppure a scuola. Con cosa andiamo a competere, se non
conosciamo quello che abbiamo fatto e sappiamo fare?
C’è
una via d’uscita o continueremo a trascinarci i vuoti?
La soluzione deve venire dal basso. Le case
editrici stanno iniziando a integrare materiale di testo e prodotti digitali e
multimediali per allargare col web i riferimenti culturali, economici, sociali
a lungo così sacrificati. Il futuro lo immagino con testi ridotti al minimo e
materiali “aperti”, dove i primi continueranno nella pretesa di avere tutta la
storia, ma i secondi allargheranno l’orizzonte della conoscenza e permetteranno
l’approfondimento verticale dei fatti e dei contesti.
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