da: la Repubblica
Il
tempo della retecrazia
Ha detto Berlusconi che "a noi Grillo
ci fa un baffo". È strano, perché la mobilitazione delle folle, l'appello
a passioni selvagge come l'ira o la vendetta, le rivoluzioni che fanno tabula
rasa del passato, il paese reale brandito contro il paese legale sono stati gli
ingredienti della sua presa del potere nel '94.
Lo slogan che esalta il paese reale non è originale: lo coniò nel primo '900 la destra di Charles
Maurras, contro i mostri della democrazia, e il comunismo lo adottò per decenni. Meglio a questo punto se
Berlusconi dicesse il vero: la sua operazione è riuscita, gran parte
dell'Italia entra antropologicamente mutata in un'era effettivamente nuova -
Grillo ha ragione - ma vi entra sprovvista di strumenti che le permettano di
governarla, razionalizzarla.
Vi sono tuttavia differenze non
trascurabili, fra l'irresistibile ascesa dei due leader. Il primo, quando entrò in politica, disponeva di ricchezze
inaudite (accumulate con aiuti pubblici, va ricordato) che il Movimento 5
Stelle neanche si sogna. Soprattutto, possedeva un potere cruciale: tutte le Tv
private, cui s'aggiungeva, da premier, il servizio pubblico Rai. Non solo: Grillo
vede la crisi; Berlusconi s'ostina a negarla, garantendo che con lui al governo
sarà spazzata via.
Siamo stati indotti a considerare il suo conflitto
di interessi un impedimento.
Fu invece il dispositivo che gli consentì di piegare i politici: in ogni accenno
al suo dominio mediatico egli vedeva un'espropriazione. Non stupisce che il
conflitto sopravviva tale e quale da anni. Stupisce che non sia stato visto
come un problema gravissimo prima che il giocatore entrasse in politica con
quell'asso. Che non si sia capito subito l'essenziale: un controllo così
pervasivo della comunicazione, in un paese dove l'80 per cento dei cittadini
s'informa alla Tv, storce le usanze democratiche, e infine chiama vendetta.
Spegne il pluralismo, corrompe e uniforma le menti, trasforma i vocabolari di
tutti: governanti, oppositori, classi dirigenti, cittadini comuni.
Da questo punto di vista Grillo innova e
dice cose non incongrue, quando denuncia i politici, le istituzioni, i
giornali. Tende a fare di ogni erba un fascio - è giusto dirlo - ma è vero che
tante erbe si son fatte volontariamente fasciare per anni. Al tempo stesso è figlio
di quel dispositivo, al cui centro c'è un'idea di democrazia diretta che usa
l'informazione non per seminare conoscenze ma per forgiare un pensiero unico
sull'Italia, l'Europa, il mondo. Il suo mezzo non è più la televisione: questa
scatola più che mai tonta, come la chiamano gli spagnoli. Né la stampa
cartacea, che ha una memoria meno immediata di quella digitale. È il mondo non
più inscatolato ma aperto, informe, straordinariamente libero di Internet.
Un mondo già scoperto da Obama,
quando diventò Presidente nel 2009. Grazie al web, egli ha ottenuto due volte un mandato popolare che lo
emancipa, se vuole, da lobby e partiti. Capace di disseminazione virale, la
rete scavalca la senile televisione. Ma essendo informe è anche in grado di
farsi bellicosa: nel libro di Grillo e
Casaleggio, la parola guerra è ricorrente, incalzante (Siamo in Guerra,
Chiarelettere 2011). Guerra "feroce e sempre più rapida", finita la
quale "il vecchio mondo sparirà" e con esso i partiti di ieri, in
Italia e ovunque. Guerra totale, addirittura: un termine per nulla anodino,
visto che nel 1935 lo usò in un opuscolo omonimo il generale tedesco
Ludendorff. Nelle guerre totali non si concedono interviste a giornalisti che
ti interrompono con dubbi e domande, anziché applausi. Quel che conta, per
Ludendorff, è "abbattere il morale delle retroguardie" (le
rappresentanze delle popolazioni non combattenti) più che l'avanguardia al
fronte.
In questa lotta fra scatola tonta e web è il secondo, sicuramente, il Nuovo che
ci aspetta. In un discorso tenuto nel febbraio 2012 per l'inaugurazione
dell'anno accademico della Bocconi,
il giurista Piergaetano Marchetti
indica i motivi per cui il futuro è nel web, con le sue immense promesse e i suoi rischi. "La
comunicazione e l'informazione di massa (attraverso la rete) è un potente canale e amplificatore di domande,
di richieste di rendiconto, un assordante coro di "perché". Un fiato continuo sul collo di chi governa.
Una pressione che genera risposte, trasparenza, informazione. E tutto ciò, a
sua volta, in un circolo virtuoso, genera altre domande di
accountability". L'accountability - la cultura del render conto - latita
in Italia. È strano che se ne parli così poco in campagna elettorale, visto il
prezzo che paghiamo per la sua assenza.
Ma se la "scossa partecipativa" è formidabilmente liberatoria,
osserva Marchetti, non mancano i possibili
effetti perversi. Ogni grande liberazione distrugge altri diritti,
ogni proclamazione di supremi valori declassa valori non meno importanti. Nella
visione di chi guida il Movimento 5 Stelle non c'è coscienza dei limiti, perché
i capi interagiscono con la blogosfera rifiutando ogni corpo intermedio, in un
tu-per-tu fatale, mai complicabile da persone terze. Non tutti i perché, non
tutti i bisogni e i valori che sorgono in rete sono sacrosanti: vanno
confrontati con altri princìpi, bisogni. Un'idea prova la sua forza se
incoraggia forti idee opposte. Altrimenti si ossifica, e anche se modernissima
muore.
In questo Berlusconi e Grillo si somigliano: non sanno contare fino a tre, e in
fondo neppure fino a due perché il tu-per-tu col popolo è fusione nell'Uno.
Ogni avversario è da abbattere: a cominciare da chi su Internet non naviga, e
in un'Italia che invecchia il divario digitale è vasto. Parole come guerra e
rivoluzione sono incendi. Ricordano la peste di Atene narrata da Tucidide, che
"spezza i freni morali degli uomini" e "travolge gli argini
della legalità fino allora vigente nella vita cittadina". La paura è la
stoffa delle guerre e dei despoti, e Grillo lo sa quando dice, e spera:
"Il mio movimento regola la paura" (The Economist 16-2).
Grillo farà eleggere molti
parlamentari, ed è un bene perché il Parlamento è la sede dove gli interessi
imbrigliano le passioni. Non gli interessi economici, ma l'interesse come lo si
intendeva nel '500: la passione razionale che controbilancia quelle
irrazionali, e secerne l'interesse generale e la separazione dei poteri. Grillo
e Casaleggio scrivono che sarà la rete a scrivere leggi e costituzioni. Ma la rete cos'è? Come delibera precisamente?
Se la rete vuole la pena di morte la
reintroduciamo? In Islanda (un
modello, per Grillo) la Costituzione è
stata ridiscussa in rete, ma riscritta da più piccoli comitati. In ogni
mutazione c'è qualcosa da preservare, da non uccidere. Altrimenti entriamo
nella logica del potere indiscutibile, legibus solutus, anelato da Berlusconi.
A questa mutazione, i partiti più o meno vecchi reagiscono spesso con lo
smarrimento, se non l'afonia. Non gridano, è vero. Il centro-sinistra in particolare ripudia
il modernismo della personalizzazione: ci sono anacronismi che durano ben
più del Nuovo. Ma sul mondo che cambia è
terribilmente indietro, senza vocabolari né inventività. Tanti cittadini sono delusi dal ceto politico.
Reagiscono moltiplicando le richieste di rendiconto, con rotolanti cori di
"perché". Chiedere "un po' più di lavoro", come fa Bersani,
è un soffio quasi inudito.
Tutto sarà diverso dopo il voto, anche se Berlusconi dovesse vincere. Sarà
arduo discernere, in Parlamento, le passioni selvagge dagli interessi
cittadini. La democrazia toccherà reinventarla, l'antico dibattito ottocentesco
sul suffragio universale andrà ripreso, perché la scatola tonta e il web
l'hanno sfinita. Ambedue puntano all'ingovernabilità, perché di essa si nutrono
passioni difficilmente regolabili. È uno dei rischi del Glorioso Mondo Nuovo
promesso dal web.
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