da: La Stampa
“Così
curiamo i tossici di Internet”
Una
giornata con i ragazzi in terapia al Gruppo Abele. Don Ciotti: “È la droga più
sottovalutata”
di Giuseppe
Bottero
Il primo (lo chiameremo N.) è arrivato qui
trascinato dai genitori. Ha diciassette anni, passa sedici ore al giorno
incollato al computer. Due anni di scuola bruciati, zero amici. Eppure non
capisce. «Io sto bene», dice. Si sveglia alle due del pomeriggio, va a letto
alle sei di mattina. In casa niente luce, a cena indossa gli occhiali da sole.
Oltrepassa i tornelli del Gruppo Abele di Torino, allarga le braccia e sgrana
gli occhi: «Che c’è che non va?».
All’inizio, nulla. Papà e mamma sono
orgogliosi: N. non fuma, non si è mai ubriacato. Nessuna notte passata con il
cuore in gola ad aspettare il rientro dalla discoteca. Ma quando provano a
staccare la spina del pc N. diventa aggressivo. Insulti, botte. Una crisi
d’astinenza in piena regola.
Don Ciotti si sta sgolando da mesi.
Eroinomani, testimoni minacciati dalla mafia, prostitute, barboni, giocatori
d’azzardo andati in rovina. Sotto la sua ala si sono rifugiati in migliaia. Ma l’ultimo
rovello del prete combattente è la cyber-dipendenza. «È la più sottovalutata»
dice. La più pericolosa. «La nostra società si preoccupa dei ragazzi, ma non se
ne occupa. Invece dovremmo dare una mano ai giovani a colmare la vita di vita».
Ma come si combatte un nemico che non c’è? Un nemico virtuale, così perfido da
infilarsi negli oggetti di cui non possiamo fare
a meno: computer, telefonini,
tablet? Si danza. Sul filo sottilissimo che c’è tra l’uso e l’abuso. Tra la
Rete che ti connette al mondo e quella che ti isola dietro il monitor, le
tapparelle abbassate, le paure affidate ad un «avatar» capace di cavarsela
contro draghi e mostri, figurarsi durante un’interrogazione.
Racconta N. che la sua giornata è piena,
appagante. Partecipa a giochi di ruolo, scarica le serie tv americane,
costruisce video da caricare su YouTube. Non si sente mai solo. Perché
dall’altra parte dello schermo c’è qualcuno. «Attraverso i loro profili online
i nostri ragazzi vivono una vita parallela, in cui non differenziano più il
confine tra il mondo reale e quello virtuale - spiega Alberto Rossetti,
psicologo in prima linea allo sportello in via Leoncavallo, Torino Nord
-.Diventano una cosa solo con il loro avatar. Fanno incontri sentimentali,
conquistano nuovi mondi, provano emozioni e sensazioni vere».
Byte al posto della carne, smiley piuttosto
che sguardi. Anche caricare i propri filmati in Rete «sembra essere un modo
nuovo - spiega Federico Tonioni, dirigente medico presso il Day Hospital di
Psichiatria e Tossicodipendenze del Policlinico Gemelli di Roma - per affermare
e a volte ricercare la propria identità e il proprio diritto di esserci. In
altri termini: se sto su Internet esisto».
Gli stessi che si sono dimenticati di J.,
cinese trapiantata a Torino. Vive solo la notte. Connessa con i connazionali a
8000 km di distanza. «Gli unici in grado di capirmi». Dalla dipendenza si può
uscire, la terapia psicologica funziona. Ma la molla decisiva arriva dal
contatto con la realtà. Gli operatori del gruppo Abele coinvolgono i giovani
organizzando mostre in cui la tecnologia diventa reale, palpabile. Cellulari
giganti in cui giocare a nascondino. Lavatrici da smontare e trasformare in
opere d’arte. Videogame programmati dai baby-geni.
Per F. il ritiro di fronte al computer è
stato graduale. Colpa delle difficoltà a relazionarsi con i compagni di classe,
il sentirsi inferiore a loro. Le violenze dei bulli, certe battute che lasciano
più lividi di uno schiaffo. Al gruppo Abele si lascia andare, racconta tutto. I
genitori sono fondamentali. «La chiave è far parlare i ragazzi di quello che
fanno in Rete, interessarsi al loro mondo», dice Rossetti.
Quando chiedono aiuto, ormai, mamma e papà
sono l’unico anello che lega i figli alla realtà. F. si allontana dallo schermo,
ma la fatica per tornare ad inserirsi tra i coetanei «è enorme». Perché il web
affascina, non lascia spazio alla solitudine. «Dietro la schermata accesa di
Facebook c’è sempre l’illusione che qualcuno interagisca», prosegue.
Nell’eroina si fugge dal mondo, con
Internet si cercano relazioni nuove. Il buco ti estrania, il social network ti
regala emozioni vere. «La droga si può abbandonare - ragiona Mauro Maggi,
educatore -, la tecnologia no. Bisognerà farci i conti per sempre perché è
parte integrante della nostra quotidianità». Imparare a convivere con ciò che
ti ha portato alla dipendenza, ecco la sfida. «È come con un coltello, capisci?
Puoi intagliare sculture bellissime, o ucciderti».
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