martedì 7 febbraio 2012

Marco Panara: il lavoro del futuro sarà poco e povero



Il lavoro del futuro sarà poco e povero
di Marco Panara

Siamo in trappola. Sappiamo che dobbiamo aumentare la produttività per tornare a crescere, ma aumentare la produttività vuol dire produrre di più con un minor numero di persone. E sappiamo anche che liberalizzare i mercati aumenta le potenzialità dell’economia e lo sviluppo globale, ma più si aprono i mercati più aumentano le disuguaglianze. E noi giustamente vogliamo insieme produttività e occupazione, mercati liberi e società inclusive. Il problema è che non abbiamo la ricetta. La disoccupazione è ai suoi massimi storici, con oltre 205 milioni di persone senza lavoro nel mondo, 75 milioni dei quali sono giovani. E anche le disuguaglianze hanno raggiunto un livello record, con il 10 per cento più ricco che ha redditi nove volte superiori al 10 per cento più povero. Di questo dramma i paesi industrializzati sono il cuore: il 55 per cento dell’aumento della disoccupazione globale tra il 2007 e il 2010 è avvenuto nella parte "ricca" del pianeta.

Mentre per quanto riguarda la disuguaglianza, quel rapporto medio di 9 a 1 tra i redditi dei più ricchi e quelli dei più poveri sale a 10 a 1 per l’Italia fino a raggiungere 14 a 1 negli Stati Uniti.
C’è di mezzo la crisi, ovviamente, ma secondo molti studiosi la crisi ha solo fatto esplodere una situazione che era già nelle cose. La sostanza è tanto semplice quanto inquietante: i paesi industrializzati non riescono a creare tanto lavoro quanto sarebbe necessario per dare a tutti i cittadini una prospettiva di vita attiva e dignitosa.
La sfida centrale oggi è proprio questa: creare posti di lavoro. Da un punto di vista generale il primo motore è la domanda, se le famiglie non hanno soldi da spendere non potranno acquistare beni e servizi, e le imprese non investiranno né assumeranno. Quindi la prima cosa da fare è rimettere in moto la domanda, operazione già in sé difficilissima in tempi di austerità. Ma purtroppo, anche riuscendoci, la domanda non basterebbe. Secondo gli ultimi studi dell’Ocse e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), anche una crescita più sostenuta non creerebbe i posti di lavoro necessari. Usando le parole dell’ex segretario al Tesoro americano Larry Summers: «E’ più facile creare ricchezza che creare lavoro». La ragione è storica, la globalizzazione fa nascere lavoro nei paesi emergenti ma, almeno in parte, contribuisce a cancellarli nei paesi industrializzati. La tecnologia fa il resto, perché consente alle macchine di sostituire il lavoro umano in molti settori. Per dirla ancora con le parole di Summers, «siamo diventati così bravi a produrre una serie di cose, che riusciamo a produrne tantissime con pochissime persone».
Creare lavoro però è un imperativo, e da qualche parte bisogna cominciare. Ci sono alcuni dati di fatto. Il primo è che il 30 per cento del nuovo lavoro viene
creato dalle nuove imprese, e quindi bisogna rendere il più possibile semplice e poco costoso far nascere una nuova impresa. E bisogna anche rendere meno punitivo il fallimento: chi intraprende si assume un rischio e non deve avere il timore di una punizione eccessiva in caso di insuccesso. Il secondo dato da cui partire è l’analisi dei settori, guardando quelli che negli ultimi anni hanno prodotto lavoro e quelli che invece lo hanno distrutto. La mappa non è omogenea, ma ci sono alcuni punti fermi. Il settore manifatturiero tra il 2006 e il 20011 ha perso 2 milioni 250 mila posti di lavoro negli Stati Uniti e, tra il 2008 e il 2010, 3 milioni 868 mila nell’Unione Europea, compresa la Germania che è la regina dell’industria mondiale. Tra Europa e Stati Uniti 4 milioni e mezzo di posti di lavoro sono scomparsi nelle costruzioni, in Europa oltre un milione di posti si è volatilizzato nel commercio, che invece di là dell’Atlantico di posti ne crea. Questi sono i settori con i numeri negativi più alti. Ma ce n’è almeno un altro che vale la pena segnalare, la logistica, che perde mezzo milione di posti di lavoro in Europa e 270 mila negli Usa.
Poi c’è l’altra parte della medaglia, i settori che hanno creato lavoro. Negli Stati Uniti le attività estrattive, che in Europa pesano poco, hanno creato 500 mila posti, si va invece nella stessa direzione per quanto riguarda la cura della salute, 2 milioni di posti in America e uno nell’Unione, l’educazione, 400 mila negli Usa e 540 mila nella Ue, le professioni, con 800 mila posti in più negli Stati Uniti e 280 mila in Europa.
L’Italia, in questa comparazione è un caso a sé: nell’educazione abbiamo perso 65 mila posti, nella sanità ne abbiamo solo 8 mila in più, nelle professioni il dato è addirittura negativo per 27 mila unità. Dove invece brilliamo, con ben 125 mila posti in più tra il 2008 e il 2010, sono i posti di coloro i cui datori di lavoro sono le famiglie: più 125 mila. Sono badanti, baby sitter e colf. Conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, certamente, ma forse anche l’anticipazione di un trend che si allargherà anche ad altri paesi, se un economista come Christopher Pissarides, premio Nobel nel 2010 proprio per i suoi studi sull’economia del lavoro, sostiene che dalle sue ricerche recenti emerge che la domanda di lavoro riguarda ormai sempre più "unskilled workers", lavoratori non specializzati, per lo più per servizi alle persone.
L’interpretazione di questi dati non è ovvia. La prima riflessione è che se l’attività manifatturiera non crea lavoro, anzi ne perde, ciò non vuol dire che non si debba comunque puntare su di essa, per avere merci da esportare e quindi equilibrare la bilancia commerciale, ma anche perché se c’è l’industria si sviluppano anche i servizi a valore aggiunto e le professioni, mentre se l’industria non c’è si sviluppano soltanto quelli "poveri" di redditi e di competenze, i servizi alle persone appunto. La seconda riguarda la sanità e l’educazione. Secondo Summers saranno i due settori che creeranno il maggior numero di posti di lavoro qualificati nei prossimi dieci anni. L’Italia, alle prese con i tagli di bilancio, è indietro su questa strada, ma forse è giunto il momento di cambiare ottica. Smetterla di considerare sanità ed educazione come costi e considerarli invece settori economici che aumentano la ricchezza della società, e che possono essere gestiti con efficienza indipendentemente dal fatto che per un patto sociale i costi sono sostenuti prevalentemente dalla collettività nel suo insieme. La terza riflessione riguarda i servizi a basso valore aggiunto. Secondo Pissarides cresceranno quelli alla persona e anche le attività nei settori del tempo libero, dalle caffetterie alle palestre e attività contigue. «Qui il problema dice Pissarides è rendere questi lavori più dignitosi e rispettabili».
Il punto della dignità del lavoro è centrale anche nelle valutazioni dell’Ilo. «Con il concetto di lavoro dignitoso ha detto Gianni Rosas, Coordinatore del programma per l’occupazione giovanile dell’Ilo, al seminario su "Giovani e mercato del lavoro" il 25 gennaio scorso al Cnel l’Ilo pone l’accento sull’importanza di un lavoro che non sia solo un mezzo di sussistenza. Lavoro dignitoso significa un lavoro produttivo, nel quale vengano rispettati i diritti, che produce un reddito adeguato e che comporta meccanismi adeguati di protezione sociale». Questa categoria di nuovi lavori che promette di essere tra la più dinamiche non sempre risponde a queste caratteristiche. «Andare a lavorare in una fabbrica è una prospettiva rassicurante e viene percepita come dignitosa dice Pissarides andare a lavorare in una caffetteria o occuparsi degli anziani, anche a parità di reddito, il che non è quasi mai, non gode della stessa percezione. Perché non c’è una tradizione familiare in questo senso, non c’è il sindacato e non ci sono tutele. Poiché però molto nuovo lavoro verrà da lì, quello che si deve fare allora è renderlo dignitoso, nella sostanza con adeguate tutele, e nella percezione con una nuova cultura della contemporaneità».
Che sia in fabbrica, in famiglia, nella cura della salute o in una caffetteria, la creazione di lavoro in numeri adeguati richiede oggi uno sforzo titanico. Fondamentale è rendere semplice ed economico avviare una nuova impresa e rendere il più economico possibile assumere un dipendente. E tutti noi, per capire come vanno davvero le cose, più che al tasso di disoccupazione, che nasconde una parte rilevante della realtà, dobbiamo abituarci a guardare al tasso di occupazione sulla popolazione in età di lavoro, e al numero di nuovi posti di lavoro netti creati, per valutare se ci stiamo muovendo nella direzione giusta o stiamo solo fingendo di farlo.

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