da: la Repubblica
Pensate a una lunga coda, quasi
interminabile, per trovare lavoro. Chi finisce la scuola secondaria e decide di
smettere di studiare, si mette subito in fila: sarà una lunga attesa, ma prima
o poi toccherà anche a lui avere un impiego.
Chi, invece, decide di continuare a
studiare dopo la scuola secondaria aspetterà almeno tre anni (il tempo minimo
di ottenere una laurea breve) per mettersi in una coda a parte, riservata ai
laureati. Va più veloce di quella dei diplomati, ma non abbastanza da permettere
loro di arrivare al traguardo del primo impiego in anticipo rispetto ai loro
coetanei che si sono messi in coda 3 anni prima di loro. In questo dato, messo
in luce dal primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della
ricerca redatto da Anvur, presentato ieri alla presenza del neoministro
dell’Istruzione e della Ricerca, si capiscono molte cose sull’andamento
dell’istruzione terziaria in Italia.
Sono pochi coloro che si iscrivono
all’università, nonostante il grande divario che ci separa dagli altri Paesi
europei nel numero di laureati. Anche se ci concentriamo sulle generazioni che
oggi hanno meno di 45 anni, ne abbiamo la metà che nel Regno Unito e non più
del 60% che mediamente nell’Unione Europea (a 27 Paesi). Il fatto è che, per famiglie
che hanno difficoltà
nell’accesso al credito, conta che il proprio figlio trovi
lavoro prima possibile, anche se guadagnando meno di un laureato (il divario
medio nei salari di ingresso fra diplomati e laureati e del 25%). E se ci si
accorge che non si è particolarmente dotati per gli studi universitari e che si
rischia di andare fuori corso, si decide di abbandonare il corso di studio
ancor prima di ottenere il pezzo di carta.
Avviene così che solo 14 studenti su 100
che si iscrivono ai corsi di laurea triennale ottenga una laurea magistrale al
termine di un ciclo di studi durato almeno 5 anni. Più o meno lo stesso numero
abbandona l’università entro il primo anno di università. E sono pochissimi i
giovani con più di 25 anni che iniziano o continuano un corso di studi
universitario.
Se vogliamo che in Italia aumentino gli
investimenti in capitale umano dobbiamo migliorare la transizione da scuola e
lavoro. Questo è tanto più vero dopo la cocente delusione del 3+2, il
fallimento dei trienni nel fornire un percorso alternativo e più breve verso il
mercato del lavoro dei laureati. Non sappiamo se l’ampia delegazione italiana
presente in Germania lunedì abbia discusso anche di questo. Ma certo abbiamo
molto da imparare dall’esperienza tedesca nel fornire scuole di formazione
universitarie professionalizzanti. Quel 10 per cento in meno di laureati che
abbiamo rispetto al paese di Angela, si spiega soprattutto nel 9 per cento di
giovani tedeschi che hanno conseguito un titolo di studio nelle scuole professionali
avanzate. Mettere in piedi anche da noi un sistema di questo tipo andrebbe
incontro alle richieste di molte imprese di avere qualificazioni intermedie fra
il diploma e la laurea magistrale e delle famiglie di vedere i propri figli
cominciare ad acquisire professionalità e guadagnare qualcosa mentre stanno
ancora completando il ciclo di studi. Abbiamo le strutture per farlo.
Nonostante i fondi all’università siano calati in termini reali di un quinto
negli ultimi 5 anni, il numero di comuni con sedi universitarie non è calato.
Con pochi fondi, dispersi su troppe sedi, è impossibile riuscire a fornire
formazione universitaria al livello richiesto dalle lauree magistrali. Le sedi
che non riescono a raggiungere questi livelli dovrebbero perciò porsi l’obiettivo
di mettere in piedi, in accordo con un certo numero di imprese locali, un corso
di laurea triennale altamente professionalizzante, un apprendistato
universitario caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in
azienda. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il
lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli
reciproci fra università e azienda sulla qualità della formazione conferita al
lavoratore.
Un altro fattore che limita i nostri
investimenti in capitale umano sono le poche risorse per il diritto allo
studio. Il fatto che le borse vengano erogate solo al 69% degli idonei è un
fatto indegno per un Paese civile. Speriamo che il neo-ministro della Pubblica
istruzione, presente ieri in sala, abbia provato la nostra stessa vergogna nel
vedersi presentato questo dato. Può porvi rimedio senza fare la questua in via
XX Settembre. Basta che imponga agli atenei di aumentare subito le tasse
universitarie per chi ha redditi più alti (sopra i 50.000 euro), impegnando le
risorse così raccolte prioritariamente a garantire la borsa a tutti coloro che
ne hanno diritto.
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