da: La Stampa
L’avete notato? Ogni governo ha la sua
parola chiave. Quando c’era Monti, la parola chiave era «salvare» (l’Italia).
Con Letta era diventata «stabilità». Con Renzi e i suoi siamo passati a
«rivoluzione». Poiché in passato si è fatto ben poco, e nessuno ha memoria di
una vera rivoluzione, il mero fare qualcosa appare rivoluzionario.
Non ho nulla contro l’uso della figura
retorica dell’iperbole, e quindi non cercherò di sostituire alla parola
rivoluzione parole meno eccitanti, tipo cambiamento, riforma, provvedimento.
Parliamo pure di scelte rivoluzionarie, se questo può tirarci su il morale.
Però almeno proviamo a fare qualche distinzione, perché dentro la rivoluzione
in corso ci sono atti di portata molto diversa. Ci sono atti che hanno un
valore simbolico altissimo e nessun effetto pratico, o addirittura effetti
pratici negativi. E ci sono atti che lasciano indifferente il grande pubblico
ma hanno una portata enorme, nel senso che possono cambiare radicalmente le
condizioni di vita della gente. La mia impressione è che fra l’importanza di un
atto e l’attenzione dell’opinione pubblica vi sia, tendenzialmente, una sorta
di relazione inversa, per cui quel che colpisce l’immaginazione conta poco e
quel che conta molto non colpisce l’immaginazione.
Vediamo due esempi estremi.
Mettere all’asta 100 auto blu è pura
propaganda anti-casta. E lo resterebbe anche se ne venissero vendute 1.000 o
10.000. Non tanto perché il ricavato sarebbe comunque modestissimo, ma perché
il vero costo delle auto di servizio sono gli autisti, e anche licenziandoli in
blocco resterebbero da pagare taxi e corse di auto Ncc (Noleggio con
conducente). Assumendo che le auto blu vendute siano 1.500 e non solo 100, e
che da ciascuna si ricavino 5.000 euro (come suggerisce l’esperienza passata),
il ricavato sarebbe di 7,5 milioni, una cifra assolutamente irrisoria (più o
meno 1 millesimo dei risparmi di spesa ipotizzati da esponenti del governo per
il 2014, pari a 7 miliardi).
Passiamo al secondo esempio. Pagare alle
imprese 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione, e farlo «entro
luglio» (o anche entro il 21 settembre, come ora si sente dire) sarebbe
effettivamente una misura di impatto enorme, una misura che cambierebbe le vite
di molti. Perché se questi pagamenti avvenissero effettivamente e rapidamente
molte meno fabbriche chiuderebbero, ci sarebbero più assunzioni, e le imprese
superstiti sarebbero più competitive. Però ne parlano solo gli specialisti e i
creditori, l’opinione pubblica si appassiona di più per le auto blu o per i
1000 euro in più in busta paga. A sentire i dibattiti di questi giorni, sembra
che questi benedetti 10 miliardi in più per i lavoratori dipendenti siano una
misura rivoluzionaria e senza precedenti, la mossa decisiva che può rilanciare
i consumi e far ripartire la crescita.
Ma bastano pochi calcoli per mostrare che
la gerarchia di importanza fra queste due ultime misure, meno tasse e pagamento
dei debiti, è tutta un’altra. Il pagamento dei debiti della Pubblica
Amministrazione rimette dentro i bilanci delle imprese 68 miliardi di euro,
ossia circa 4 punti di Pil. Il saldo netto della manovra di politica economica
di Renzi, nella più favorevole delle ipotesi, è dell’ordine di 6-7 miliardi di
euro (circa 0,4 punti di Pil), e questo per la semplice ragione che le minori imposte
(Irpef e Irap) sono compensate da maggiori tasse sul risparmio e da tagli alla
spesa pubblica (la cosiddetta spending review). Detto brutalmente, il reddito
disponibile dei lavoratori dipendenti beneficiati dalle riduzioni Irpef potrà
anche crescere un po’, ma a fronte di questo incremento i risparmiatori
pagheranno più tasse, e la Pubblica amministrazione dovrà ridurre acquisti e
stipendi. Contrariamente a quanto molti sono portati a pensare, i 10 miliardi
che il governo promette di «mettere in tasca» a una parte dei lavoratori non
pioveranno dal cielo ma, ove si troveranno le coperture saranno sottratti ad
altri usi, e ove tali coperture non verranno trovate andranno ad aumentare il
deficit pubblico (di 3 miliardi, secondo le ultime dichiarazioni).
Ed eccoci al punto: la «rivoluzione» è
fatta di tasselli di impatto del tutto diverso. La vendita della auto blu
entusiasma ma non sposta nulla: è mero solletico. La manovra complessiva di
riduzione bilanciata di tasse e spesa pubblica piace, ma sposta poco: è una
pacca sulle spalle. Il pagamento effettivo e tempestivo dei debiti della
Pubblica Amministrazione non scalda i cuori ma può spostare molto: è un vero
choc. Uno choc positivo che oggi può evitare la chiusura di migliaia di
attività economiche, e ieri avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di
posti di lavoro che ora non ci sono più.
Ma esiste qualche possibilità che, entro il
21 settembre, la Pubblica Amministrazione faccia quel che Renzi promette?
Penso non lo sappia nessuno. Anzi, penso
che nessuno lo possa sapere: né Renzi, né Padoan, né Bassanini (che ha
elaborato il piano di sblocco dei pagamenti). Perché l’esito di questa partita
non dipende solo da come andrà il braccio di ferro fra la politica, che ora
pretende il pagamento dei debiti, e la burocrazia, che ha sempre frenato.
L’esito dipenderà anche dai mercati finanziari. I quali potrebbero apprezzare
l’operazione, in quanto aumenta le prospettive di crescita dell’Italia, ma
potrebbero anche osteggiarla (chiedendoci tassi più alti), in quanto essa
equivale a una spesa non coperta da corrispondenti entrate. E questo
indipendentemente dalle procedure di contabilizzazione del debito che la
Ragioneria dello Stato e il ministero dell’Economia riuscissero a negoziare con
l’Europa: l’esperienza passata dimostra che i vincoli della politica economica
non sono solo quelli stabiliti dalle autorità europee (il famigerato 3%), e che
il loro rispetto non è né necessario né sufficiente per evitare l’aggressione
dei mercati.
Dunque, a mio parere, il governo rischia.
Rischia di non sbloccare i debiti perché gli apparati ministeriali si mettono
di traverso, o perché le banche non collaborano, o perché l’Europa ci mette
condizioni tropo severe. Ma rischia pure di riuscire a sbloccarli, e che a quel
punto siano i mercati a sentire puzza di bruciato in un’operazione così
imponente. In questa situazione, l’unica carta che l’Italia può giocare per
proteggersi dal rischio di un nuovo aumento dello spread è accelerare le
riforme strutturali (soprattutto in materia di giustizia civile, norme fiscali
e mercato del lavoro), e rendere il più possibile credibili gli annunci sulle
misure future. Il che vuol dire essenzialmente una cosa: prendere congedo dagli
estenuanti riti della seconda Repubblica, che hanno imbrigliato tutti i governi
che si sono succeduti dal 1994. Riti fatti di interminabili negoziati e
mediazioni fra partiti, nel Parlamento, con le parti sociali, con gli apparati
dei ministeri. Riti fatti di lungaggini abnormi nell’iter dei provvedimenti
legislativi, in una selva di annunci, disegni di legge, emendamenti, deleghe,
decreti attuativi, regolamenti.
Da questo punto di vista il governo Renzi è
una realtà ancora tutta da scoprire. Il suo decisionismo fa ben sperare, mentre
la pioggia di annunci, quasi sempre privi di un supporto legislativo ben
definito, fa temere che, alla fine, anche lui possa finire impigliato nella
palude da cui voleva tirarci fuori.
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