da: Il Fatto Quotidiano
Fondi
d’investimento sempre più cruciali per equilibri globali, sotto stretta
sorveglianza
di Marzio
Gaeta
Riflettori puntati sui grandi gestori del
risparmio, che spostano miliardi di euro ogni settimana rischiando di scatenare
crisi sistemiche: da Blackrock, che ha appena rafforzato la presa su Intesa,
Unicredit e Mps, a Franklin Templeton, che ha in mano un terzo del debito
pubblico dell'Ucraina.
Dopo le banche d’affari, un altro tipo di
istituzione finanziaria sta cominciando a preoccupare i regolatori di tutto il
mondo: i grandi fondi d’investimento americani. Controllano importanti fette di
debito pubblico, partecipano massicciamente al capitale delle principali
multinazionali e sono in grado di spostare centinaia di miliardi di dollari
ogni anno da una parte all’altra del mondo. Il timore è che in un futuro
possano replicare l’effetto Lehman Brothers, tra le principali cause della
crisi che, dopo aver messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2007–2008, ha
affossato negli anni successivi l’Europa e il mondo intero. La bomba questa
volta, invece, potrebbe essere innescata dalle grandi società di gestione dei
risparmi, il cui peso è ormai talmente sproporzionato rispetto ad
altre
istituzioni sul mercato da influenzare pesantemente i mercati, la politica
delle aziende e addirittura degli Stati con le loro decisioni di investimento.
Paure che non sono del tutto infondate: per
capire la stazza di questi fondi made in Usa, basti pensare che da soli i prime
cinque (Blackrock, Vanguard, State Street, Pimco e Fidelity) controllano
investimenti per 12.770 miliardi di dollari, poco meno dei 16.600 miliardi del
Prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Non sorprende, quindi, che tra le
lobby più potenti compaia in prima fila l’Investment company institute (la
versione americana di Assogestioni), temuta da politici ma anche dai manager
d’azienda, che hanno sempre un occhio di riguardo verso il voto dei gestori
nelle assemblee annuali degli azionisti. Ecco perché da alcune settimane, le
autorità Usa e, in Europa, quella del Regno Unito, stanno cercando in includere
i gestori con un patrimonio in gestione superiore a 100 miliardi nella lista
delle istituzioni finanziarie di importanza sistemica, cioè quelle in grado di
scatenare una crisi su scala globale e, quindi, da sottoporre a una vigilanza
speciale con regole più stringenti.
I grandi fondi Usa, però, dicono no alla
sovra regolamentazione del settore che rischia di frenare la competitività e di
danneggiare gli investitori finali. “A differenza delle banche, i colossi dei
fondi non sono troppo grandi per fallire”, ha ribadito con disappunto
l’Investment company institute spiegando che il patrimonio che hanno in
gestione appartiene ai loro clienti e che i costi aggiuntivi e norme più
restrittive, se applicate selettivamente, rischierebbero di distorcere il
settore su scala globale. A preoccupare il ministero del Tesoro Usa non sono i
prodotti di queste case d’investimento, di sicuro tra i più trasparenti sul
mercato, ma il cosiddetto “effetto gregge” causato dal loro comportamento: può
provocare ondate di vendite o di acquisti, contribuendo a gonfiare le bolle sui
mercati obbligazionari o azionari; o causare problemi di liquidità, quando
vanno incontro a troppe richieste di rimborso da parte dei loro clienti. Solo
Pimco, il fondo guidato dall’infallibile “re dei bond” Bill Gross, lo scorso
anno ha registrato deflussi per 29 miliardi di dollari, a causa dei bassi
rendimenti delle obbligazioni ma anche a scelte di investimento in titoli di
Stato americani che hanno deluso gli investitori a fine anno.
In Italia, invece, ricordiamo le
scorrazzate di BlackRock a Piazza Affari, che negli ultimi mesi ha incrementato
le proprie partecipazioni nelle più rilevanti società quotate della Penisola
(le blue chip) tanto da diventare il primo azionista di Unicredit e il secondo
di Intesa SanPaolo e del Monte dei Paschi di Siena. Nel gennaio 2013, per
citarne una, il colosso newyorkese dei fondi si liberò in una sola volta del
2,3% di Saipem il giorno prima che la società lanciasse l’allarme sui profitti,
provocando così il crollo del titolo alla seduta successiva.
Ma oggi il caso più evidente tocca
addirittura la crisi in Ucraina: circa un terzo del totale del debito pubblico
di Kiev denominato in dollari americani” (fonte Bloomberg) è gestito infatti da
una sola società, la californiana Franklin Templeton (ha sede a San Mateo,
città non lontana da San Francisco), che lo scorso novembre ha acquistato in
massa oltre 5 miliardi di dollari in titoli governativi ucraini. Secondo le
indiscrezioni comparse sulla stampa anglosassone e a una recente analisi di
Morningstar, una società indipendente di valutazione dei fondi, l’ammontare del
debito ucraino in mano al gestore americano sarebbe di oltre 6 miliardi di
dollari.
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