da: La Stampa
Microsoft,
Google e Facebook si proteggono dalle spie: da loro chi ci protegge?
I
grandi del web fanno di tutto per rendere impenetrabili i loro dati all’NSA. Ma
non sempre tutelano con altrettanto zelo la privacy di chi usa i loro servizi
di Claudio
Leonardi
Le più grandi aziende online, da Google a
Microsoft, si sono recentemente attrezzate per garantire i propri utenti da
intrusioni indesiderate nella loro posta elettronica e nei loro dati personali,
dopo lo scandalo che ha coinvolto la National Security Agency. Ma chi ci tutela
dalle aziende stesse?
La scorsa settimana, Microsoft è stata al
centro di nuove polemiche dopo aver rivelato una “sbirciatina” alla posta
personale di un blogger francese sul suo account Hotmail. La società di Redmond
ha giustificato l’operazione come parte di una indagine che aveva lo scopo di
tutelare informazioni commerciali riservate: un ex dipendente di Windows RT,
Alex Kibkalo, oggi agli arresti, era sospettato di fornire segreti commerciali
al blogger francese tramite messaggi di posta elettronica su Hotmail. Sul
punto, le regole del servizio di Microsoft
chiariscono che è vietato usarli per
caricare o rendere disponibili file che contengano software o altro materiale
protetto dalle leggi sulla proprietà intellettuale.Quindi, l’azienda ha agito nel suo pieno diritto. Questo, naturalmente, non ha messo a tacere le critiche e ha indotto i responsabili dell’immagine pubblica di Microsoft ad annunciare regole più trasparenti: un gruppo di legali dedicato che certifichi sufficienti indizi di reato e la ratifica di un avvocato, ex giudice federale, prima di effettuare qualunque incursione nei dati personali degli utenti.
Di fatto, le aziende negli Usa non hanno
bisogno di autorizzazioni dei tribunali per fare indagini al loro interno. Non
ci sono leggi che impediscono a Microsoft di controllare i dati nei propri
servizi e solo Microsoft può decidere quando è opportuno. In forme diverse, il
problema si pone anche in altre aziende, tra cui Google e Yahoo.
La società di Mountain View, a dire il
vero, da molto tempo ha applicato regole abbastanza chiare per tutelare i dati
dei suoi iscritti, ma è ugualmente al centro di due class action che riguardano
la scansione automatica effettuata dal motore di ricerca su tutte le mail dei
suoi utenti per poter inviare messaggi pubblicitari ad hoc.
Sotto accusa anche il modo in cui Google
analizza i profili legati alle Apps for education, sfruttandoli a scopo di
marketing secondo una denuncia di Education Week.
Il motore di ricerca ha più volte spiegato
che la scansione delle mail a scopo pubblicitario avviene in modo automatico,
alla ricerca di alcune parole chiave e resta sotto sicuro anonimato, associando
gli utenti a numeri e mai a nomi e cognomi. E questo è, comunque, il prezzo da
pagare per sfruttare un grande servizio senza spendere un centesimo.
Identici sospetti colpiscono Facebook,
accusata di setacciare i messaggi privati dei cittadini per crearne profili
destinati alle aziende. L’azienda di Mark Zuckerberg ha garantito di usare
cautele tecnologiche che proteggono l’identità dei suoi iscritti, ma sono
ancora molti gli utenti dei grandi network online a non sentirsi del tutto
sicuri.
Con l’eccezione di alcuni tipi di
informazioni come le cartelle cliniche, i dati sarebbero praticamente tutti
disponibili, secondo Lorrie Faith Cranor, professore associato di informatica e
di ingegneria e di politica pubblica presso la Carnegie Mellon University e
direttore del CyLab utilizzabile Privacy e Security Lab, ascoltato da
Computerworld Usa.
“Ci sono alcune restrizioni legali su ciò
che le grandi aziende possono fare con i vostri dati personali” ha spiegato, ma
“Che cosa si acquista, quali siti web si visitano... non c’è nessuna legge che
impone di non guardare queste informazioni”.
Il codice sulla privacy in vigore in
Italia, in realtà, prevede che qualunque uso dei dati personali (comprese
abitudini di acquisto e di navigazione) sia reso noto all’utente e sottoposto
alla sua approvazione. Ma se si va a guardare nei contratti chilometrici, che
molto spesso sottoscriviamo senza leggere, che regolano l’uso dei grandi
servizi online, probabilmente troveremo anche quello. Molti siti chiedono il
permesso di scaricare dei cookies sul nostro computer, vale a dire piccoli
programmi che monitorano le nostre attività online: quasi sempre noi accettiamo
l’intruso perché più interessati alla proposta del sito che a possibili (e in
fondo remote) conseguenze sulla nostra privacy.
E in effetti, esistono intrusioni che hanno
esiti positivi sulla nostra esperienza online, come le scansioni che consentono
di individuare spam e di relegarlo in una cartella a parte della nostra posta.
In ogni caso, è sostanzialmente vero che i
giganti del web stanno alzando gli scudi contro minacce esterne: Google questa
settimana ha annunciato la rimozione dell’opzione per disattivare la sua
crittografia HTTPS, per rendere più difficile spiare le e-mail, e un mese fa
Microsoft ha annunciato la disponibilità del suo programma di Office 365
Encryption in grado di cifrare le e-mail e garantirle da indesiderate
intercettazioni.
Edward Snowden, l’informatore che ha
innescato lo scandalo dello spionaggio online da parte della Nsa, ha però
osservato, nel corso di una videointervista, che la crittografia HTTPS non
impedisce ai fornitori di servizi di attingere a dati archiviati sui propri
server.
I nostri dati sono il petrolio della web
economy. Quindi, le aziende più grandi che si permettono di offrirci gigabyte
su gigabyte di spazio per archiviare e comunicare, si riserveranno sempre il
diritto, pur con qualche garanzia, di sfruttare quell’enorme giacimento che
rende personalizzabile la pubblicità sul web.
Piccole realtà come Syme, un servizio
simile a Facebook ma criptato, o l’applicazione di messaggistica Wickr, che
afferma di non avere modo di leggere i dati delle persone, garantiscono
temporaneamente maggiore privacy. Ma per quanto tempo?
Forse dovremmo iniziare a domandarci quante informazioni, spontaneamente e senza forzature legali, noi stessi regaliamo alle multinazionali della Rete.
Forse dovremmo iniziare a domandarci quante informazioni, spontaneamente e senza forzature legali, noi stessi regaliamo alle multinazionali della Rete.
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