lunedì 3 giugno 2013

Turchia: “Quella donna in rosso simbolo della rivolta

da: la Repubblica

Piazza Taksim come piazza Tahrir? Di sicuro la rivolta degli alberi, rappresentata dalla “donna in rosso” che resiste al getto degli idranti, mette per la prima volta in difficoltà il governo Erdogan.
di Renzo Guolo



Come spesso accade, è una vicenda apparentemente impolitica che fa scattare la scintilla. La protesta contro la distruzione del parco Gezi, il polmone verde cittadino, per fare posto a un enorme centro commerciale, a una caserma e a una moschea, diventa così occasione per parte della società turca, quella cresciuta all’ombra di una laicità alla francese e quella che guarda all’Europa, di manifestare il proprio rifiuto nei confronti del modello Akp.

Un modello ben visibile nel progetto contestato, caratterizzato da simboli economici, militari, religiosi. Una sintesi perfetta del neottomanesimo in versione Akp, fondato su una crescita economica onnivora e il gigantismo progettuale, sul ritrovato ruolo politico e militare del paese, sul marcatore religioso. È contro questa Turchia neottomana che protesta l’opposizione politica e la società laica, non certo riducibile al kemalismo autoritario. Gezi è il catalizzatore di un dissenso più vasto.
Divenuto egemone grazie alla capacità di garantire crescita e stabilità interna, l’Akp ha pigiato recentemente l’acceleratore sul versante dell’islamizzazione dei costumi. Il divieto di baci in pubblico, l’ostracismo verso trasmissioni televisive critiche nei confronti del passato ottomano e la pubblicità “lasciva”, così come altri segnali, dall’invito del sindaco di Ankara ai cittadini a adottare stili di vita consoni ai valori morali della nazione alla legge per limitare il consumo di alcolici, dalla condanna per blasfemia di uno scrittore di origine armena per aver criticato il Profeta alla decisione governativa di non riconoscere rilevanza culturale agli aleviti, branca minoritaria e liberale dell’islam, fanno temere una decisa virata verso l’islamizzazione dei costumi.
Del resto, più un partito islamista come l’Akp, al potere dal 2002, diventa “affidabile” sul piano sistemico, interno e internazionale, tanto più dovrà irrigidirsi sul piano dei valori e dei costumi. In Turchia come altrove. Se attenua troppo il suo profilo religioso, intacca il consenso dell’elettorato islamista. Ne va della stessa matrice originaria di una formazione che, nonostante la patente di “moderatismo” e il luogo comune secondo cui sarebbe assimilabile alla Dc italiana o quella tedesca, ha radici nell’islam politico.
Erdogan è riuscito a trasformare progressivamente il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo in partito “pigliatutto, capace di raggruppare pezzi di società dagli interessi e valori differenziati, che chiedevano essenzialmente normalizzazione e modernizzazione. La vittoria in tre elezioni consecutive gli ha consentito di ridurre il peso dei contro-poteri custodi, anche arcigni, della laicità: quello militare, quello giudiziario, quello burocratico, in passato efficienti attori di interdizione del nascente potere islamista. L’Akp è ora a un bivio: può optare per un generico conservatorismo religioso oppure, forte del consenso acquisito sul terreno economico e del prestigio assunto in Medioriente e in Asia Centrale, provare a introdurre nella società “elementi di islamismo”. Il clima degli ultimi mesi fa ritenere a molti turchi che l’Akp abbia imboccato questa seconda strada. Per questo la protesta dilaga e i manifestanti chiedono le dimissioni di Erdogan. La rivolta di Istanbul è il termometro della febbre di un paese diviso sulla sua identità. 

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