da: la Repubblica
Piazza
Taksim come piazza Tahrir? Di sicuro la rivolta degli alberi, rappresentata
dalla “donna in rosso” che resiste al getto degli idranti, mette per la prima
volta in difficoltà il governo Erdogan.
di Renzo
Guolo
Come spesso accade, è una vicenda
apparentemente impolitica che fa scattare la scintilla. La protesta contro la
distruzione del parco Gezi, il polmone verde cittadino, per fare posto a un
enorme centro commerciale, a una caserma e a una moschea, diventa così
occasione per parte della società turca, quella cresciuta all’ombra di una
laicità alla francese e quella che guarda all’Europa, di manifestare il proprio
rifiuto nei confronti del modello Akp.
Un modello ben visibile nel progetto contestato, caratterizzato da simboli
economici, militari, religiosi. Una sintesi perfetta del neottomanesimo in
versione Akp, fondato su una crescita economica onnivora e il gigantismo
progettuale, sul ritrovato ruolo politico e militare del paese, sul marcatore
religioso. È contro questa Turchia neottomana che protesta l’opposizione
politica e la società laica, non certo riducibile al kemalismo autoritario.
Gezi è il catalizzatore di un dissenso più vasto.
Divenuto egemone grazie alla capacità di garantire crescita e stabilità
interna, l’Akp ha pigiato recentemente l’acceleratore sul versante
dell’islamizzazione dei costumi. Il divieto di baci in pubblico, l’ostracismo
verso trasmissioni televisive critiche nei confronti del passato ottomano e la
pubblicità “lasciva”, così come altri segnali, dall’invito del sindaco di
Ankara ai cittadini a adottare stili di vita consoni ai valori morali della
nazione alla legge per limitare il consumo di alcolici, dalla condanna per
blasfemia di uno scrittore di origine armena per aver criticato il Profeta alla
decisione governativa di non riconoscere rilevanza culturale agli aleviti,
branca minoritaria e liberale dell’islam, fanno temere una decisa virata verso
l’islamizzazione dei costumi.
Del resto, più un partito islamista come l’Akp, al potere dal 2002, diventa
“affidabile” sul piano sistemico, interno e internazionale, tanto più dovrà
irrigidirsi sul piano dei valori e dei costumi. In Turchia come altrove. Se
attenua troppo il suo profilo religioso, intacca il consenso dell’elettorato
islamista. Ne va della stessa matrice originaria di una formazione che,
nonostante la patente di “moderatismo” e il luogo comune secondo cui sarebbe
assimilabile alla Dc italiana o quella tedesca, ha radici nell’islam politico.
Erdogan è riuscito a trasformare progressivamente il Partito per la Giustizia e
lo Sviluppo in partito “pigliatutto, capace di raggruppare pezzi di società
dagli interessi e valori differenziati, che chiedevano essenzialmente
normalizzazione e modernizzazione. La vittoria in tre elezioni consecutive gli
ha consentito di ridurre il peso dei contro-poteri custodi, anche arcigni,
della laicità: quello militare, quello giudiziario, quello burocratico, in
passato efficienti attori di interdizione del nascente potere islamista. L’Akp
è ora a un bivio: può optare per un generico conservatorismo religioso oppure,
forte del consenso acquisito sul terreno economico e del prestigio assunto in
Medioriente e in Asia Centrale, provare a introdurre nella società “elementi di
islamismo”. Il clima degli ultimi mesi fa ritenere a molti turchi che l’Akp
abbia imboccato questa seconda strada. Per questo la protesta dilaga e i
manifestanti chiedono le dimissioni di Erdogan. La rivolta di Istanbul è il
termometro della febbre di un paese diviso sulla sua identità.
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