da: la Repubblica
C’è una vera ragione di allarme sulle donne
uccise, o c’è un allarmismo colposo o doloso?
Si è andata ampliando la reazione
negatrice, fino a diventare una campagna. Lo scandalo sul femminicidio è
montato lentamente e tardissimo. Ha da subito eccitato dissensi troppo aspri e
ottusi per non essere rivelatori. C’è stato anche chi ammoniva che gli uomini
uccisi sono più numerosi delle donne uccise: vero, salvo che il confronto va
fatto fra le donne uccise da uomini e gli uomini uccisi da donne, e allora
diventa irrisorio. Strada facendo, le obiezioni si sono irrobustite, valendosi
anche di una (effettiva) carenza di statistiche esatte. All’ingrosso, si è
negato che le uccisioni di donne siano cresciute in numeri assoluti, e si è
sottolineato che la crescita – impressionante – nella loro quota relativa
rispetto al totale degli omicidi è dovuta solo alla riduzione degli altri
omicidi, soprattutto quelli di mafia. Prima di motivare i dubbi sulla prima
affermazione — il numero di femminicidi che resta sostanzialmente stabile nel
tempo e nei luoghi — sbrighiamo la seconda: se nel complesso degli omicidi c’è
una rilevante riduzione, e quelli contro donne restano inalterati, vuol dire
che la nostra convivenza migliora tranne che nei rapporti fra uomini e donne. A
questa allarmante constatazione si aggiunge l’altra.
Abbiamo alle spalle (recenti) un mondo
patriarcale e un codice penale
che giudicavano con sfrenata indulgenza, o con
malcelata simpatia, gli uomini che ammazzavano le “loro” donne; e ora ci
illudiamo di vivere in un mondo più affrancato dai pregiudizi e più libero per
tutti. Anzi, un altro dato, secondo cui le uccisioni di donne sono molto più
frequenti al nord che al sud, segnala una relazione complicata se non inversa
fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile. Rinvio, per una replica
generale, al blog di Loredana Lipperini (“Il fact-screwing dei negazionisti”,
27 maggio). Per parte mia, faccio alcune obiezioni peculiari.
Nella discussione
“specialista” al neologismo “femminicidio” si è aggiunto da tempo l’altro
“femicidio” (sono latinismi passati attraverso aggiustamenti anglofoni): il
primo alludendo alle vessazioni che le donne subiscono da parte di uomini, il
secondo all’assassinio. Il binomio
mi sembra privo di senso e comunque di utilità, e tengo fermo il solo termine di femminicidio
come, alla lettera, uccisione di donne. Gli obiettori all’esistenza di una
“emergenza di femminicidi” hanno capito che la categoria riguardi le donne
uccise da loro mariti e amanti e fidanzati o exmariti, ex-amanti, ex-fidanzati
(e padri e fratelli…), dunque “dal loro partner”. Questa delimitazione è frutto
di un significativo fraintendimento. È vero, e raccapricciante, che la gran
parte delle violenze e delle stesse uccisioni di donne è perpetrata dentro le
mura domestiche, dove i panni andavano lavati, cioè sporcati, al riparo da
sguardi estranei. Ma questa selezione statistica toglie altre circostanze in
cui donne vengono uccise “perché donne”.
Addito le prostitute assassinate.
Piuttosto: non “le prostitute”, ma le donne che si prostituiscono; correzione
essenziale, se appena riflettiate alla differenza, di spazio e di emozione, fra
i titoli che dicono “donna uccisa” o “prostituta uccisa”. Gli assassinii di
prostitute sono molti e orrendi. Gran parte dei detenuti per omicidio di un
carcere non speciale hanno ammazzato la “loro” donna, o una, o più, prostitute.
Non è femminicidio? Per bassezza di rango? O perché le prostitute non hanno
padre, coniuge, fidanzato, e gli assassini non sono i loro “partner”? Ma lo
sono senz’altro. Nel caso delle prostitute,
l’assassino è “il loro partner”.
Basta a renderlo tale la cifra che sborsa o promette per il prossimo quarto
d’ora, o il loro stare su un marciapiede a disposizione di chi le voglia e
prenda a nolo. La nudità esposta
delle prostitute da strada – le più allo sbaraglio – è per loro un modo di aderire, per la durata della
loro fatica, all’alienazione di sé, di sospendere la propria identità salvo
rientrarvi a nottata passata; per gli uomini, è la manifestazione denudata
dunque resa astratta e universale – come la moneta, corpo che sta per tutti i
corpi – del piacere che può loro venire, della loro indigente questua di
badanti sessuali. La gelosia maschile è
così diversa da quella femminile (come attesta la sproporzione di botte e
coltellate, salvo che la si riduca alla differente muscolatura) perché noi uomini intuiamo e temiamo
una superiorità sessuale femminile, una disposizione al piacere che nessuna
presunzione amorosa può del tutto addomesticare. Lo sapevano gli antichi, e ne
avevano confidato al mito la memoria anche dopo aver ridotto le donne in
cattività, prime fra gli animali domestici. Ne hanno ereditato la nozione, pur
non sapendo più spiegarla né spiegarsela, e dandola falsamente come una
prescrizione religiosa, le società che si dedicano scrupolosamente a mutilare
le bambine degli organi sessuali, mutando in strumenti di dolore e anche di
morte una fonte di piacere renitente al comando. (Ricordiamo il catalogo: “Non
desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo
schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino…”). Alle donne che
fanno le prostitute gli uomini prendono a basso costo e basso rischio un surrogato
alla violenza casalinga e amorosa: come le bambole sulle quali i medici cinesi
visitavano le loro pazienti vestite, le prostitute sono le fidanzate momentanee
e traditrici su cui infierire. “Non era che una puttana”. Romena, russa,
bielorussa, nigeriana: “Uccisa una nigeriana”.
Titoli in corpo piccolo (si chiama così la statura delle lettere a stampa,
corpo), al di sotto del femminicidio consacrato. Vuoi mettere, si dirà, una
nigeriana uccisa con la ragazza quindicenne che ci ha spezzato il cuore? Certo
che no. Eppure sì.
È affare di noi uomini. Le donne che fanno
le prostitute e partono ogni sera per la più asimmetrica delle guerre civili la
sanno lunga, su noi, che esitiamo a seguire il filo dei pensieri fino al punto
in cui fa il nodo. È seccante rileggere i più bei frutti della nostra
creatività letteraria e artistica per scorgervi la rovina del Grande
Delinquente che ha ucciso la puttana perché l’amava e la voleva solo per sé.
I volontari della campagna anti-scandalismo sul femminicidio protestano che una
morte vale un’altra: la ragazza massacrata vale il pensionato rapinato
(qualcuno si spinge a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli
incidenti stradali!). Che si distingua chi perseguiti o uccida qualcuna o
qualcuno perché è donna – o perché è gay, o perché è ebreo, o nero – sembra
loro un’insensibilità costituzionale. Il paragone con le minoranze è improprio:
le donne sono la sola maggioranza brutalizzata. Le leggi, dicono, valgono per
tutti. È vero, e riconoscono aggravanti particolari. Come spiegano Lipperini e
Murgia – e tante altre – occorre a un capo l’impegno culturale e all’altro capo
il sostegno materiale ai centri antiviolenza. Aggravare le pene è il riflesso
condizionato di legislatori di testa leggera e mano pesante. Di una sola misura
c’è bisogno, più efficace a impedire di nuocere a chi ha minacciato, picchiato
e molestato abbastanza da annunciare l’esito assassino. Qui è il punto penale:
solo in apparenza preventivo, perché quelle minacce e molestie e violenze,
quando siano accertate, sono già sufficienti alla repressione che il
femminicidio attuato renderà postuma.
La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al
sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono
ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili
motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?
Nessun commento:
Posta un commento