da: Lettera 43
Piano
C, il coworking per le donne
A
Milano un nuovo spazio per lavorare in compagnia. Che offre servizi di baby
sitting e aiuta le neomamme a reintegrarsi in ufficio dopo il parto. Con 25
euro al giorno.
di Antonietta
Demurtas
In Italia solo il 46% delle donne lavora
contro una media europea del 62%. E il 15% lascia l'occupazione con la
maternità. Eppure, secondo la Banca d'Italia, se l'occupazione femminile
aumentasse del 14% il Pil salirebbe del 7%.
NUOVA CULTURA DEL LAVORO. Una semplice equazione matematica di cui molti
discutono ma che nessuno vuole risolvere. Riccarda Zezza, ex manager Nokia e di
banca Prossima, ci ha provato partendo da due considerazioni: alle donne serve
uno spazio alternativo. Agli italiani una nuova cultura del lavoro. Che li
aiuti, soprattutto in un momento di crisi come questo, a rimettersi in gioco.
Perché se l'aumento della disoccupazione lascia sempre più persone fuori dal
mercato del lavoro, chi riesce a entrare è quasi sempre inquadrato come libero
professionista a Partita Iva e spesso non ha nemmeno un posto dove lavorare.
Così, per ridurre i costi di gestione, la casa diventa un ufficio. E
l'isolamento aumenta.
CONDIVISIONE DI SPAZI E SERVIZI. Per dare una struttura e soprattutto un
network a questi lavoratori, a dicembre 2012 a Milano è nato Piano C (guarda la
gallery), che l'amministratrice unica Zezza definisce «un laboratorio dove
cerchiamo di creare e sperimentare condizioni artificiali che aiutino a
lavorare meglio».
Come? Usando il coworking e il cobaby, ovvero la condivisione degli spazi di
lavoro e del servizio di babysitter «che però sono solo alcuni degli strumenti
molto flessibili che abbiamo deciso di mettere a servizio delle donne».
Sono loro infatti le protagoniste a cui è dedicato il progetto, lavoratrici che
si sono stancate di essere flessibili e hanno deciso di rendere flessibile il
loro modo di lavorare.
«Non ha senso pretendere di cambiare le persone», dice Zezza, a cui piace creare
immagini efficaci per spiegare la sua idea. «Se la metà degli abitanti sul
pianeta fa fatica a entrare nel mondo del lavoro attraverso una porta, forse
dovremmo rivedere la forma della porta».
MAMME PIÙ VECCHIE D'EUROPA. E, soprattutto, capovolgere il luogo comune
secondo cui «far entrare le donne nel mondo del lavoro vuol dire abbassare la
produttività». Un vero e proprio «baco del sistema», lo definisce Zezza, «il
problema non è infatti la donna, ma il mondo del lavoro. Invece continuiamo a
ricevere il messaggio che è colpa nostra perché facciamo i bambini. E poi ci si
sorprende quando escono le statistiche secondo cui le mamme italiane sono
le più vecchie d'Europa».
Fare
social business mettendo in discussione le dinamiche del lavoro
Lo sa bene Zezza che ha avuto i suoi figli
a 36 e 39 anni, «la maternità si rimanda perché in Italia hai la percezione che
il figlio sia il classico caso di bene comune il cui beneficio va a favore di
tutti, ma il costo lo sopporta solo la famiglia». E in particolare la donna,
«che viene segregata in casa, e se lavora è frustrata perché non riesce a
conciliare tutto».
CAMBIARE LE REGOLE. Piano C, invece, ha l'obiettivo di «pacificare» le
dinamiche quotidiane delle lavoratrici e anche degli uomini che hanno figli (a
cui sono dedicate una sorta di quote azzurre di accesso, ndr). «Abbiamo
voluto creare uno spazio comune dove lavorare, formarsi, incontrarsi,
risolvere, mettere in comune, ma soprattutto cambiare le regole, le
convenzioni».
Una mission impossible che Zezza ha intrapreso a novembre 2011
quando, durante la sua seconda maternità, per la prima volta sentì parlare di
coworking con baby parking, uno spazio per bambini dove allo stesso tempo puoi
lavorare e unire le energie.
UNO SGUARDO ALL'ESTERO. Un progetto che le permetteva di realizzare il suo
sogno: «Fare social business» mettendo in discussione le dinamiche del lavoro
«sempre e solo maschili, che anche nelle grandi aziende sono deludenti e si
ripetono nella loro inefficienza».
Riccarda ha passato mesi a studiare i modelli organizzativi flessibili che ci
sono all'estero, «in centro Europa c'è molto coworking, come negli Stati Uniti,
dove c'è la mentalità di non sentirsi dipendenti di un'azienda ma piccoli
imprenditori di se stessi che lavorano per obiettivi», racconta Zezza.
In Nord Europa invece il coworking è poco usato «perché non serve, la
flessibilità ce l'hanno già in azienda».
Per realizzare Piano C c'è voluto un anno di preparazione: da gennaio 2013
tutti i servizi sono attivi: si può avere una scrivania per lavorare, lasciare
i figli nel baby parking adiacente, affittare una sala riunioni, consumare uno
spuntino nello spazio cucina comune, usufruire dei servizi salvatempo come
quello della lavanderia o della spesa a domicilio. Ma anche partecipare alla
numerose iniziative organizzate dall'Associazione come i corsi di online
reputation, yoga, manutenzione della coppia, gestione separata, Inps e casse.
LA COMMUNITY COME BUSINESS. Uno spazio con servizi reali ma il cui core
business è la community, che permettere di trovare ogni volta soluzioni e
interagire, pacificare quelle due dimensioni della vita reale come il lavoro e
la famiglia.
Per questo, a soli cinque mesi dalla sua nascita, Piano C ha già vinto il
premio per miglior progetto di innovazione sociale della Banca europea per gli
investimenti.
Sette i soci (cinque donne e due maschi) che hanno messo i soldi necessari per
farlo partire, anche perché trovare fondi pubblici è un miraggio: «I tempi si
sarebbero allungati in maniera esponenziale», dice Zezza.
Tra i soci fondatori c’è anche Carlo Mazzola, analista finanziario e
proprietario di uno spazio, che voleva usare per fare attività di social
business. «E visto che proprio lo spazio è il costo più alto che devi
affrontare», racconta Zezza, «una volta ottenuto questo, è partita
l'avventura».
CAPITALE SOCIALE PRIVATO. Con un capitale sociale di 36 mila euro, a cui i
soci hanno aggiunto un ulteriore finanziamento di circa 150 mila è partita la
start up. «Ora continuiamo a perdere circa 2 mila euro al mese, poi dovremo
recuperare le spese fatte».
Per questo i soci hanno deciso di non darsi lo stipendio, «almeno sino a quando
non andremo in pareggio», dice l’amministratrice unica.
Parlare di profitto, quindi, è ancora presto. Ma a fine start up, «per stare in
piedi con un minimo margine di guadagno, prevediamo di raggiungere un fatturato
di 150 mila euro», calcola Zezza, considerando che lo spazio di 250 metri
quadri con tutti i servizi richiede una spesa di 11 mila euro mensili.
Per ora, le maggiori entrate sono garantite dall'affitto delle sale riunioni e
degli spazi usati da piccole aziende o associazioni. Dentro Piano C ha per
esempio la sua base Valore D, la prima associazione di grandi imprese creata in
Italia per sostenere la leadership femminile.
L'uso
quotidiano di una postazione costa 25 euro
Piano C è una srl e anche un'associazione,
«perché in Italia non esiste il modello del social business, che è quello che
noi siamo, ovvero un'impresa a finalità sociale», che permette anche di
distribuire i profitti, ma con un tetto. «Una soluzione che nei paesi anglofoni
è ormai una prassi», dice Zezza.
Nonostante un grande ritorno mediatico, l'inizio di Piano C è lento. A marzo
usavano lo spazio comune 13 persone, a maggio 20, «che sono poche per ora,
perché per arrivare a pieno ritmo dovremmo averne 40 sotto lo stesso tetto». La
maggior parte sono libere professioniste nell'ambito della comunicazione, della
grafica, della ricerca. Quelle fisse sono una creativa, una copywriter, una
psicologa, un'insegnante di inglese, due dipendenti di azienda e una ragazza in
congedo di maternità.
AL MESE 300 EURO. Popolare lo spazio di coworking è difficile e non è solo
una questione di costi: l'uso quotidiano di una postazione di lavoro - dalle 9
alle 19 - vale 25 euro, ma si scende a 16 con un carnet multi ingresso, e quasi
a 10 euro se si fa l'abbonamento mensile di 300 euro (che è quello più completo
e comprende l'uso della cucina, tè e caffè, una mensola personale, scanner e
fotocopie, l'uso per quattro ore della sala riunioni, convenzioni, servizi
salvatempo, community online, cobaby).
VOGLIA DI RISCATTO. «Per ora la media di utilizzo è due volte la settimana
a persona, sono donne che hanno già altre abitudini lavorative e soprattutto
esigenze famigliari che le costringono a stare a casa», spiega Zezza.
Donne «con una grande voglia di riscattarsi, di mettere la loro energia da
qualche parte». La maggior parte, racconta Zezza «ha un'esperienza di
precarietà e di lavoro nero legato alla gravidanza. Questa è la storia
inenarrabile che il Paese non racconta. Sono quattro donne su cinque ad avere
problemi sul lavoro quando rimangono incinte, una cosa folle. Eppure non ne
parla nessuno, non c'è nessun tipo di stigma sociale su questa
discriminazione».
Per questo, «il nostro obiettivo è tirarle fuori dall'uscio e far vedere loro
che c'è anche uno spazio diverso dove si può lavorare e non sentirsi sole».
Una delle cose più difficili è «cambiare la mentalità delle persone. Ma
modificare le abitudini non dipende da una società, serve l'intervento delle
istituzioni», ricorda Zezza. A maggio 2013, il Comune di Milano è stato il
primo in Italia a fare un bando per il coworking, che copre sino al 50% delle
spese fatte dal lavoratore per usare uno spazio di lavoro.
MODELLO DA ESPORTARE. Esportare il modello di Piano C è l'obiettivo. Che
non vuol dire solo proporre il servizio di cobaby durante la maratona o il
progetto di coworking all'Idroscalo per i genitori che durante l'estate portano
i figli al summer camp.
Un'idea è quella di vendere dei pacchetti di Piano C alle aziende per le loro
dipendenti che ritornano dalla maternità e che spesso vivono il rientro in
ufficio come un trauma. «Si può proporre alle lavoratrici una transizione
graduale nel nostro spazio, dove non devono smettere di allattare, hanno il
cobaby, lavorano per obiettivi, sono più serene, stanno in una community di
donne che hanno già affrontato questo trauma. Questo potrebbe anche essere un
modo per aumentare il profitto della stessa azienda», dice Zezza.
RAGIONARE SUI TEMPI LUNGHI. «L'obiettivo è rimettere insieme vita e lavoro
in maniera sinergica anche nelle aziende e nelle istituzioni. Un concetto forse
metafisico», osserva Zezza, «ma adesso le aziende hanno voglia di sentire
queste cose: l'energia non conosce barriere, non c'è il muro tra vita e
lavoro».
L'unico vero muro è che «questi progetti danno risultati a lungo termine,
almeno due tre anni. E nessuno in Italia, tra istituzioni e aziende, ha un
orizzonte temporale così lungo. Tutti vogliono risultati immediati. Così il
miglior modo per avere un beneficio è tagliare».
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