da: La Stampa
Jovanotti:
Sanremo? Forse, ma studio un mio show in tv
Partito
il “Backup Tour”: colorato, energico, i successi reinterpretati
di Marinella
Venegoni
Lorenzo Cherubini arriva nella notte che
ancora sprizza watt davanti alla tavola imbandita. Più magro di sempre (causa
allenamenti, dice) si consumerà ulteriormente in due ore di mitraglianti
confessioni nelle quali riassumerà la sua weltanschauung. All’ordine della
notte però, spunterà il solito Sanremo: e intrecciando le sue ammissioni, alle
quali hanno fatto eco ieri quelle di Fazio e del direttore di Raiuno Leone, par
proprio di capire che qualcosa di grosso bolle.
Quando andò a Che tempo che fa ad annunciare il tour di Backup,
Fabio Fazio invitò subito Jovanotti a
condurre con lui la prossima edizione del Festival.
Ora, non solo Fazio ribadisce che gli piacerebbe prima o poi far qualcosa
insieme in tv, ma lo stesso direttore di Raiuno Leone si spinge oltre: «Ci sono
molti progetti con Lorenzo per Raiuno, sia di one-man-show a più puntate sia di altri format di cui per
riservatezza non posso parlare. Sanremo? Non dico nulla». A tavola ad Ancona,
l’artista non si era sottratto: «In realtà sarebbe bello fare questo spettacolo
in tv, da Fazio ma forse anche a Sanremo. Ne riparleremo a settembre. Prima o
poi, e non tanto poi, mi piacerebbe fare quattro puntate mie in tv, pensate
studiate lavorate. Sanremo sarà molto difficile, c’è dell’altro in programma.
Nella mia vita quel che più mi piace fare è scrivere canzoni, un mestiere che
ha bisogno di silenzio, di serrande abbassate e dalla vita».
Già,
per poi esplodere negli stadio, come in questi mesi a venire...
«Negli stadi si fa l’epica, si mette in
scena il grande viaggio, come quello di Odisseo, con la ciurma e con l’inganno.
Ho costruito Backup con la squadra di sempre. Ai 25 anni di carriera ci sono
arrivato, ma sempre ho mostrato la mia costruzione, il growin’ up in public
come diceva Lou Reed. Spesso viene letto come un difetto, invece avvicina la
gente».
Un
tour come ritratto di una generazione?
«Il pop è la cultura del Novecento, rimarrà
anche se è stato preso poco sul serio. La mia generazione non è male, non
abbiamo coperture ideologiche però ci siamo, festeggiamo».
Un
grande show, con 6 cambi di costume.
«Non ha idea di quanto io sudi».
Il
concerto è anche come un regalo-tiramisù all’Italia...
«È il messaggio che lancio, cerco di
mettere in pratica McLuhan: la forma è la sostanza. In un momento così difficile
non mi è venuta altra idea che ribaltare il clima. Uno spettacolo non fa leggi,
e poi quando vedo questo pubblico penso che ce la possiamo fare. A Palermo, nei
giorni scorsi ero invitato per una lezione di comunicazione musicale: si
aspettavano 400 ragazzi ne sono arrivati seimila. C’è la necessità di qualcosa
che rompa il meccanismo della lamentela e faccia dire “ce la possiamo
fare”».
In
che panni si è sentito sul palco?
«Ha vinto la rockstar, avevo anche lo
stesso vestito d’oro di Elvis sulla copertina di 50.000 Elvis fans can’t
be wrong».
Prospettive
americane, prospettive italiane?
«Andrò a suonare a Rock in Rio, mi
propongono un album in inglese. Ho affinato la lingua, ci posso riuscire. Ho
imparato tante cose, laggiù: la musica rappresenta sempre una comunità, e
quando non è più rappresentativa va in crisi. Perché in Italia non si suona
più? Nei bar si deve pagare la Siae, ma dovrebbe invece essere la Siae a pagare
per far suonare i giovani. I più grandi degli ultimi anni, da Ferro in poi,
vengono dai live. Suonare dal vivo fa vivere».
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