mercoledì 12 giugno 2013

Punto e Stop: elezioni amministrative, la gioia (una, non di più) del Pd

Il Pd ha un motivo per gioire. I sondaggi lo davano in totale disfacimento e, invece, ha piazzato undici sindaci su undici di quelli in ballottaggio. E ha conquistato il Campidoglio.
Altri motivi per gioire non ve ne sono. O, quanto meno, la gioia comprensibile non dovrebbe disdegnare un sano realismo. Quello che vorrebbe si analizzasse l’insieme del voto per trarne le relative conclusioni.

L’astensionismo ha assunto dimensioni tali che il Pd risulta essere il partito di maggioranza della minoranza degli italiani. Perché il primo partito è, appunto, quello dell’astensione.
In altri paesi la scarsa affluenza alle urne è nella norma delle abitudini democratiche, favorita da un consolidato maggioritario o, anche in caso di sistema proporzionale, dal fatto che i candidati premier sono due, più un terzo “incomodo”. In Italia, siamo abituati a percentuali di voto dell’80-75%. 

Rimane il fatto che, come nelle assemblee condominiali, se non ci si presenta o si dà delega, le decisioni sono assunte dai presenti e valide e applicabili anche per gli assenti.
Il che significa, riportandoci alle elezioni, che il Pd ha legittimamente vinto, che gli assenti si beccano gli amministratori decisi da altri.

Ma se l’amministratore di un condominio e i condomini che partecipano all’assemblea se ne possono fregare del perché e per come alcuni condomini siano assenti, posto che: vi sia la maggioranza per deliberare, il Pd non può ignorare che riesce a vincere quando l’astensionismo è alto, vale a dire: quando parte dell’elettorato di centro destra o anche centro, non trova un candidato che gli piaccia o dal quale riceva “pecunia”. Non si può ignorare che il centro sinistra, per quanto più radicato nel territorio locale, anzi – proprio per questo elemento che dovrebbe favorirlo – non riesce a prende voti da elettori più propensi a guardare verso il centro-destra.
Non ci vuole il pallottoliere per capire che se proiettassimo l’elezione a livello nazionale, il Pd sarebbe sconfitto. Secondo o terzo partito è da vedere. Dipende da quanto perderebbe Giuseppe Piero Grillo.

Altra riflessione che dovrebbe fare il Pd, è che a spuntarla sugli avversari politici sono, ormai da tempo, candidati non di provenienza apparato del partito. Non solo: prevalgono coloro non in “sintonia” con la politica nazionale.
Il governo Napolitano, pardon: il governo Letta, beneficia del risultato delle amministrative ma non può accaparrarsi il merito. Perché a Roma ha vinto Marino. Che ha votato contro il governo Napolitano, pardon: Letta.
Perché a Udine aveva vinto la Serracchiani. E se facciamo un passo indietro: a Milano vinse le primarie e poi le elezioni, Giuliano Pisapia, non appartenente al Partito Democratico.
Certo. Questo “criterio” delle candidature locali del Pd sta funzionando. Non resta che applicarlo per il prossimo candidato Pd alla presidenza del consiglio. Per questo motivo Renzi deve “conservare” la percezione che ha in parte degli italiani: di essere nuovo, contrapposto all’apparato del partito in “voga” da vent’anni. Né più né meno, come Berlusconi.
Compito non difficile per l’erede di Silvio, ‘Marc’Antonio’ Matteo Renzi (perché Bersani è uomo d’onore…perché Enrico Letta è uomo d’onore..). Unica complicazione: che Letta riesca a fare due cosucce in croce da “oscurare” Renzi.
Non mi pare che il sindaco di Firenze, da questo punto di vista, corra grandi rischi….

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