Il Pd ha un motivo per gioire. I sondaggi
lo davano in totale disfacimento e, invece, ha piazzato undici sindaci su
undici di quelli in ballottaggio. E ha conquistato il Campidoglio.
Altri motivi per gioire non ve ne sono. O,
quanto meno, la gioia comprensibile non dovrebbe disdegnare un sano realismo.
Quello che vorrebbe si analizzasse l’insieme del voto per trarne le relative
conclusioni.
L’astensionismo ha assunto dimensioni tali
che il Pd risulta essere il partito di maggioranza della minoranza degli
italiani. Perché il primo partito è, appunto, quello dell’astensione.
In altri paesi la scarsa affluenza alle
urne è nella norma delle abitudini democratiche, favorita da un consolidato
maggioritario o, anche in caso di sistema proporzionale, dal fatto che i
candidati premier sono due, più un terzo “incomodo”. In Italia, siamo abituati
a percentuali di voto dell’80-75%.
Rimane il fatto che, come nelle assemblee
condominiali, se non ci si presenta o si dà delega, le decisioni sono assunte
dai presenti e valide e applicabili anche per gli assenti.
Il che significa, riportandoci alle
elezioni, che il Pd ha legittimamente vinto, che gli assenti si beccano gli
amministratori decisi da altri.
Ma se l’amministratore di un condominio e i
condomini che partecipano all’assemblea se ne possono fregare del perché e per
come alcuni condomini siano assenti, posto che: vi sia la maggioranza per
deliberare, il Pd non può ignorare che riesce a vincere quando l’astensionismo
è alto, vale a dire: quando parte dell’elettorato di centro destra o anche
centro, non trova un candidato che gli piaccia o dal quale riceva “pecunia”.
Non si può ignorare che il centro sinistra, per quanto più radicato nel
territorio locale, anzi – proprio per questo elemento che dovrebbe favorirlo –
non riesce a prende voti da elettori più propensi a guardare verso il
centro-destra.
Non ci vuole il pallottoliere per capire
che se proiettassimo l’elezione a livello nazionale, il Pd sarebbe sconfitto.
Secondo o terzo partito è da vedere. Dipende da quanto perderebbe Giuseppe
Piero Grillo.
Altra riflessione che dovrebbe fare il Pd,
è che a spuntarla sugli avversari politici sono, ormai da tempo, candidati non
di provenienza apparato del partito. Non solo: prevalgono coloro non in
“sintonia” con la politica nazionale.
Il
governo Napolitano, pardon: il governo Letta, beneficia del
risultato delle amministrative ma non può accaparrarsi il merito. Perché a Roma
ha vinto Marino. Che ha votato contro il governo Napolitano,
pardon: Letta.
Perché a Udine aveva vinto la Serracchiani.
E se facciamo un passo indietro: a Milano vinse le primarie e poi le elezioni, Giuliano
Pisapia, non appartenente al Partito Democratico.
Certo. Questo “criterio” delle candidature
locali del Pd sta funzionando. Non resta che applicarlo per il prossimo
candidato Pd alla presidenza del consiglio. Per questo motivo Renzi deve “conservare”
la percezione che ha in parte degli italiani: di essere nuovo, contrapposto all’apparato
del partito in “voga” da vent’anni. Né più né meno, come Berlusconi.
Compito non difficile per l’erede di
Silvio, ‘Marc’Antonio’ Matteo Renzi (perché
Bersani è uomo d’onore…perché Enrico Letta è uomo d’onore..). Unica
complicazione: che Letta riesca a fare due cosucce in croce da “oscurare”
Renzi.
Non mi pare che il sindaco di Firenze, da
questo punto di vista, corra grandi rischi….
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