da: Lettera 43
La
battaglia dei Masai contro lo sfruttamento commerciale del loro brand
Le
multinazionali usano il nome della tribù per i loro prodotti. Sempre più spesso
distanti dallo stile di vita della tribù. Gli africani non ci stanno. E
annunciano una class action.
di Alessandro Buttitta
Saranno anche
lontani dalla civiltà, dal capitalismo e dalle sue dinamiche, ma fessi proprio
no.
Così i Masai, forse la più nota e citata tra le tribù indigene africane che vivono ancora allo stato quasi primitivo, hanno deciso un’azione senza precedenti. Le cui spese, almeno a livello simbolico, potrebbero ricadere su multinazionali quali Louis Vitton e Land Rover.
Così i Masai, forse la più nota e citata tra le tribù indigene africane che vivono ancora allo stato quasi primitivo, hanno deciso un’azione senza precedenti. Le cui spese, almeno a livello simbolico, potrebbero ricadere su multinazionali quali Louis Vitton e Land Rover.
I Masai stanno
infatti sviluppando una class action contro le aziende che sfruttano
il loro nome a fini commerciali, senza riconoscere loro nemmeno un centesimo di
introiti.
AZIONE
CONTRO IL MARKETING. Le immagini dei guerrieri Masai,
abili
cacciatori e grandi combattenti, e delle loro donne, adornate con
gioielli dai colori sfolgoranti, sono state usate abbondantemente da molti
marchi che, sfruttando l’immaginario tribale e incontaminato, hanno sviluppato
campagne marketing di grande effetto.Ma Isaac ole Tialolo, un indigeno masai originario del Neivasha, regione nella zona meridionale del Kenya, ha deciso di creare un’organizzazione chiamata Iniziativa per il riconoscimento della proprietà intellettuale Masai.
La tribù, insomma, vuole riprendersi il proprio brand.
Un
marchio che varrebbe 10 milioni di dollari
Isaac ole Tialolo ha
cominciato a girare il mondo per portare avanti la causa del suo popolo,
spiegando le ragioni di questa improvvisa rivalsa.
«Noi tutti sappiamo
che siamo sfruttati da gente che arriva, ci fa delle foto e prende benefici da
questa azione. Siamo stati sfruttati in così tante cose che non si possono
nemmeno immaginare», ha riferito Tialolo all'emittente britannica Bbc.
«Noi crediamo che, se qualcuno fa a noi delle foto, ruba simbolicamente il nostro sangue. Se si prende qualcosa che appartiene ad altri e si fa fortuna grazie a esso, è molto molto sbagliato», ha quindi aggiunto.
PRODOTTI CHE RUBANO L’ANIMA.Stando a Light Years IP, un’organizzazione che si occupa dei diritti di proprietà intellettuale dei Paesi in via di sviluppo, al momento sono circa 80 le aziende che sfruttano ilbrand Masai in modo assolutamente libero e senza vincoli.
«Noi crediamo che, se qualcuno fa a noi delle foto, ruba simbolicamente il nostro sangue. Se si prende qualcosa che appartiene ad altri e si fa fortuna grazie a esso, è molto molto sbagliato», ha quindi aggiunto.
PRODOTTI CHE RUBANO L’ANIMA.Stando a Light Years IP, un’organizzazione che si occupa dei diritti di proprietà intellettuale dei Paesi in via di sviluppo, al momento sono circa 80 le aziende che sfruttano ilbrand Masai in modo assolutamente libero e senza vincoli.
Tra queste spiccano
Land Rover, che ha lanciato una serie di accessori chiamati proprio Masai, e la
maison Louis Vitton, che ultimamente ha inaugurato una linea Masai con teli
mare, cappelli, sciarpe e borse. E se l’idea dell’Africa nera e della vita
selvaggia funziona bene tra cittadini danarosi in cerca di emozioni, per
i Masai è una beffa vera: il loro nome è infatti associato a oggetti
diametralmente opposti al loro stile di vita.
UN FONDO PER LA
TRIBÙ. Le stime di Light Years IP valutano che il marchio
Masai varrebbe circa 10 milioni di dollari se fosse di proprietà di un’azienda.
E almeno una parte di questa somma potrebbe essere rivendicata per garantire
forme di reddito destinate alla popolazione tribale.
Nella battaglia a
fianco dei Masai a sorpresa si è schierato Paul Boateng, membro labourista del
parlamento inglese. Di origini ghanesi (suo nonno era un contadino nelle
piantagioni di cacao), Boateng ha dato il via ad African Ip Trust,
un’organizzazione che ha tra i suoi obiettivi il riconoscimento della proprietà
intellettuale delle popolazioni africane, dando eco all’iniziativa della tribù.
La
battaglia legale è complessa. E i Masai temono conseguenze
Tuttavia, la
battaglia giuridica è complessa. Le regole del diritto internazionale sembrano
ammosciare le aspettative di successo.
La legge sulla
proprietà intellettuale è infatti applicabile alle persone e alle imprese che
hanno creato innovazioni, cioè a coloro che hanno depositato brevetti. Ma
in questo caso, secondo gli esperti interpellati dalla Bbc, non c’è
alcune brevetto da applicare o far riconoscere.
LA CREAZIONE DI UN
MARCHIO AUTONOMO. I legali vicini alla Light Years Ip sostengono che
l’unica azione efficace potrebbe essere la creazione di codici di condotta
volontari che si battono per la realizzazione di un marchio autonomo legato ai
Masai, ai quali le aziende sarebbero costretta ad aderire per non apparire
insensibili alla loro causa.
Si tratterebbe insomma di buttarla sul piano morale, per creare una condotta commerciale idonea alla vita della comunità.
I DUBBI DELLA COMUNITÀ. Ma non è chiaro nemmeno se gli stessi Masai se la sentano di affrontare la querelle in tribunale.
Prima di passare alle vie legali, infatti, l’azione deve essere discussa dal Consiglio degli anziani della comunità, per decidere in che termini l’eventuale denaro debba essere distribuito: 10 milioni sono molti per una tribù abituata a vivere della sola terra. «Per noi non è una questione di soldi. Ciò che conta è il rispetto», ha precisato Isaac. E i soldi, si sa, portano spesso grane. Anche nelle comunità più pacifiche.
Si tratterebbe insomma di buttarla sul piano morale, per creare una condotta commerciale idonea alla vita della comunità.
I DUBBI DELLA COMUNITÀ. Ma non è chiaro nemmeno se gli stessi Masai se la sentano di affrontare la querelle in tribunale.
Prima di passare alle vie legali, infatti, l’azione deve essere discussa dal Consiglio degli anziani della comunità, per decidere in che termini l’eventuale denaro debba essere distribuito: 10 milioni sono molti per una tribù abituata a vivere della sola terra. «Per noi non è una questione di soldi. Ciò che conta è il rispetto», ha precisato Isaac. E i soldi, si sa, portano spesso grane. Anche nelle comunità più pacifiche.
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