lunedì 17 giugno 2013

Crisi economica: chiudono negozi, bar (ma vah?!) e ristoranti


Che una parte del paese sia in crisi è rilevabile. Detto questo, a Milano, giusto per fare un esempio, grazie alla “lenzuolata” di Bersani ai tempi del governo Prodi, negli ultimi sono stati aperti soprattutto bar. Non solo in centro. Anche in zone più periferiche.
Ci sarà un motivo. Evidentemente, questo tipo di esercizio commerciale tirava.
Fare colazione al bar alla mattina è cosa piuttosto praticata a Milano. Era praticata. Perché da più di un anno non si vedono più quelle flotte di milanesi a cappuccino e brioche e pure spremuta.
Chiamiamola crisi. Ma se si aprono bar uno attaccatto all’altro, è inevitabile che, nella migliore delle ipotesi, dopo qualche anno devi chiudere bottega.
La crisi c’è. E, soprattutto c’è  l’assenza dello Stato nel creare e favorire lavoro e imprese. Ma c’è anche un’Italia fatta di gente senza mestiere che apre attività per fare soldi velocemente e si ritrova, dopo non molto tempo, ad abbassare le serrande. L’assenza di iniziativa, l’incapacità di riconvertirsi, sono corresponsabile della crisi economica che, ribadisco: riguarda una parte del paese. Un’altra sollazza e cresce alla grande.

da: La Stampa

Chiudono bar, ristoranti, negozi
Così la crisi “desertifica” le città
Esercizi commerciali decimati,  soprattutto al Sud. I più colpiti i settori moda e abbigliamento. La burocrazia costa alle Pmi 31 milardi, pari a 2 punti di Pil

La crisi prolungata minaccia una desertificazione delle città italiane. Se il trend
di chiusure delle imprese del commercio registrato nei primi quattro mesi dell’anno dovesse continuare allo stesso ritmo, al primo gennaio 2014 la faccia dei centri urbani apparirebbe decisamente cambiata e più buia rispetto a dicembre 2012 con bar, locali, ristoranti, negozi di abbigliamento decimati dalle chiusure. E la desertificazione colpirebbe soprattutto il Sud. Secondo le stime dell’Osservatorio Confesercenti, bar e ristoranti registreranno infatti un saldo negativo combinato di 17.088 imprese, arrivando a perdere il 5% del totale di aziende registrate dicembre 2012. Ai negozi di moda e abbigliamento potrebbe andare anche peggio: a scomparire saranno ben 11.328 esercizi, secondo le stime, con una contrazione dell’8% sul 2012. Calo più contenuto invece per il settore alimentare, il cui saldo previsto è di -4.701 unità, con una variazione negativa del 3% sul 2012. 

Secondo la previsione Confesercenti, il settore dell’abbigliamento registrerà nel 2013 4.593 aperture e 15.921. Si tratta di un rapporto aperture-chiusure di 2 a 7, un dato peggiore rispetto a quello di tutte le altre categorie di attività commerciali e anche del totale nazionale, per il quale il rapporto è di una nuova apertura ogni tre chiusure. Per quanto riguarda i bar, i nuovi esercizi saranno 6.714, contro 14.430 che chiuderanno per sempre la serranda; mentre i ristoranti vedranno 15.750 imprese cessare l’attività a fronte di 6.378 aperture. 
La crisi del commercio si estende a tutto il territorio nazionale, colpendo ogni regione. Per quanto riguarda le attività del settore alimentare, le stime Confesercenti indicano un saldo particolarmente negativo soprattutto in Sicilia, dove le nuove aperture saranno solo 288, un dato inferiore di quasi quattro volte a quello delle chiusure, previste a quota 1.080. Nell’abbigliamento, invece, è la Basilicata a mettere a segno il risultato proporzionalmente peggiore: con 240 chiusure e solo 84 nuove aperture, la regione perderà a fine anno il 10% del totale dei negozi del settore. In Abruzzo, invece, è previsto un record negativo per i ristoranti: con 144 aperture e 534 chiusure, al primo gennaio 2014 la regione avrà perso l’8% del totale delle imprese attive nella ristorazione. Nel settore Bar, spicca la stima per la Valle D’Aosta che, con 33 nuove aperture e 30 chiusure, potrebbe mettere a segno una variazione minima, ma positiva, dell’1%.  

I costi immensi della burocrazia  
Al nostro sistema delle Piccole e medie imprese (Pmi) la burocrazia costa quasi 31 miliardi di euro. Per ciascuna di queste imprese si stima che il peso economico medio sia di circa 7.000 euro. È quanto sostiene la Cgia di Mestre evidenziando come i costi siano stati calcolati su base annua e siano aggiornati al 31 dicembre 2012. Rispetto agli anni precedenti, rileva il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, «i costi della burocrazia sono addirittura in crescita. Non perché sia aumentato il carico degli oneri amministrativi sulle imprese, ma perché è diventato più preciso e puntuale il sistema di rilevazione di questo fenomeno. In pratica sono state scoperte delle nuove `sacche di burocrazia´ che prima non erano conteggiate. Alla luce di ciò, non è da escludere che il costo complessivo pari 31 mld di euro sia sottodimensionato». La denuncia del segretario della Cgia di Mestre mette in evidenza anche un altro aspetto: ’’31 mld di euro corrispondono a 2 punti di Pil circa: una cifra spaventosa. Di fatto la burocrazia è diventata una tassa occulta che sta soffocando il mondo delle Pmi. Nonostante gli sforzi e qualche buon risuItato ottenuto, i tempi rimangono troppo lunghi ed il numero degli adempimenti richiesti continua ad essere eccessivo’’.  

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