lunedì 11 giugno 2012

Tempo di crisi, giovani: lavori che non piacciono, scuola che non serve a trovare lavoro


Leggere il ‘buongiorno’ di Gramellini di qualche giorno fa
(http://taccuinodiunamarziana.blogspot.com/2012/06/il-buongiorno-di-massimo-gramellini.html) mi ha fatto riandare ad alcuni pensieri che non ho mai avuto tempo di scrivere.

E’ un argomento che i cosiddetti mezzi d’informazione scansano, cui parte degli italiani manco pensano e che un’altra parte d’italiani si dice da qualche tempo: “oggi sono tutti laureati, dove li mettiamo?” e “ci sono giovani che certi mestieri non li vogliono fare”.
Nell’articolo, Gramellini racconta di un giovane disoccupato cui “non piace lavorare la sera mentre gli altri escono”.
Bene. Va tutto bene. E’ normale che uno abbia preferenze di vita e di professione ed è sicuramente un miglioramento sociale rispetto a molti anni fa, quello di vivere in un paese nel quale non si deve necessariamente adattarsi per campare. I miei nonni, i miei genitori, mancano le pensavano certe cose. Se disgraziatamente le avessero non solo pensate ma anche dette erano…calci in culo.
Abbiamo indubbiamente fatto un salto di civiltà. O no?
Scegliere, accettare o escludere, va bene. Va tutto bene nella misura in cui uno non parta dal presupposto che l’unica responsabilità della sua condizione sia sempre di “altri”.

E’ un giovane “sincero” quello che dice alla Fornero: ‘non mi piace lavorare mentre gli altri escono’. Il che dimostra che la sincerità è sempre la migliore qualità: dice chi sei, mostra quello che sei. Certo…se sei pirla…
E’ un giovane fortunato quello che si è incrociato con la Fornero.
Non solo i miei nonni e i miei genitori, ma anch’io a vent’anni, quando ancora vivevo in famiglia, se avessi detto una simile frase, i miei genitori
mi avrebbero (la prima volta) civilmente risposto in questo modo: cercatene un altro, intanto prendi questo e i soldi li dai in casa.
L’alternativa era semplice e sintetica e l’ho fatta mia negli anni: quella è la porta da dove entri, quella è la porta da dove esci.
Figuriamoci, se potevo pensare di non accettare un lavoro qualora avessi deciso di andare a vivere per conto mio.

Ho scelto un lavoro che non corrispondeva a ciò cui aspiravo. Ho fatto bene ad accettarlo, sono cresciuta professionalmente nel tempo ingoiando un po’ di rospi ma non dovendo piegarmi né adattarmi a certe logiche.
I rospi li ho anche sputati.
Se potessi tornare indietro, cercherei un’altra professione ma sono consapevole che non esiste un mestiere che mi permetterebbe una soddisfazione totale. Mi considero più fortunata di alcuni – per quanto nessuno mi abbia mai regalato nulla -, meno di altri. E considero certe lamentele un insulto a chi sta peggio.
Non è buonismo. E’ buon senso.

C’è poi quell’altro aspetto da considerare. Quello del “oggi son tutti laureati, dove li mettiamo?”
C’è, da molti anni, la moda del liceo. Le scuole professionali sono considerate serie ‘b’. Il merito va sicuramente ai vari ministri della pubblica (d)Istruzione. E mi pare che anche le ultime ideuzze “tecniche” (ministro Profumo) non modifichino la distanza tra la scuola e il mondo del lavoro.

Dove li mettiamo tutti questi laureati? Non li mettiamo…Vorresti un numero chiuso, una scuola selettiva?
No. Vorrei una scuola superiore nella quale per un periodo fossero insegnate materie diverse: umanistiche e  cosiddette tecniche. Non posso pensare che a un ragazzo di 14-15 anni non s’insegnino principi base di filosofia e storia dell’arte, come esprimersi in lingua italiana e inglese, principi base di diritto costituzionale e civile, principi di economia. Non ha senso che chi sceglie il liceo non studi diritto ed economia. Non sono materie “tecniche”, sono materie sociali.
Non ha senso che chi sceglie un istituto professionale – a parte alcune nozioni infilate nei libri d’italiano e storia – non sappia distinguere Leonardo da Vinci da Picasso.
La scuola selettiva non è solo dare strumenti e incentivi ad alcuni lasciando indietro altri. La selezione avviene, innanzitutto su: ciò che insegni e come lo insegni.
Non esiste una riforma della scuola che dia agli insegnanti capacità di comunicare ma può esistere una scuola che sappia impostare programmi di studio, indirizzare e valorizzare gli studenti.

Un periodo “generalistico” consente ai ragazzi di capire quale indirizzo di studi approfondire. Terminato il secondo periodo di approfondimento (fosse anche umanistico) si apre l’ultimo periodo: quello di avvio alla professione oppure all’università.
Il discorso chiede sicuramente di essere ulteriormente analizzato e sviluppato, ma, per dirla in pochi concetti macro: un periodo di studio “generalistico” trasversale (materie attualmente di diversi indirizzi scolastici), un periodo specialistico e un periodo di avvicinamento e avvio pratico al mondo del lavoro. Non sarà una grande idea e parte di questa è forse già in attuazione, ma ritengo che uno degli aspetti positivi di questa impostazione possa essere quello di ridurre certe distanze status, che indirizzano verso i licei senza che questo tipo di scuola sia utile per sbocchi professionali.
Il liceo, in sé, non serve a un organo sessuale maschile. Il liceo, in sé, non è sinonimo di cultura. La conoscenza, la cultura, te la fai negli anni e deriva da più elementi. Il liceo prepara, sostanzialmente, potenziali disoccupati. Ma vuoi mettere dire: “mio figlio va al liceo, anziché dire: “mio figlio va all’Istituto professionale servizi”.
Per chi ha fatto il liceo, iscriversi all’Università è quasi una scelta obbligata, perché non si hanno i requisiti per interessare il mondo professionale. Cinque anni di studio dovrebbero invece servire per dotare  i ragazzi di un’istruzione appropriata, per avere possibilità di sbocchi professionali immediati o per accedere all’Università.
Una scuola che indirizza più direttamente al mondo professionale ma priva i ragazzi di alcuni elementi di istruzione e una scuola che “filosofeggia” o è solo preparatoria all’Università non ha senso, né dal punto di vista culturale né dal punto di vista sociale. Non dobbiamo crescere ragazzi “monchi”, dobbiamo individuare il “kit” essenziale (che dovranno comunque sviluppare nel tempo) perché diventino soggetti autonomi mentalmente, in grado di interagire con coetanei e adulti, di inserirsi nel resto del contesto sociale. La riforma Gelmini o quelle precedenti sono idonee a raggiungere questi obiettivi?

L’istruzione – perché quale sia l’istituto scolastico, nella migliore delle ipotesi produce istruzione e non cultura - serve per dare una conoscenza base e per indicarti una predisposizione. Il mondo del lavoro è altro. Ma se arrivi a questo con una buona base e avendo esercitato il cervello nello studio di ciò che ti è piaciuto e nel quale hai trovato corrispondenza, avrai più probabilità di essere selezionato. Non solo: avrai una maggiore possibilità di scelta e non vivrai alcuni mestieri come un adattamento o peggio ancora: come qualcosa “contro natura”.
Certo…temo che anche questa scuola che ho sommariamente descritto non piaccia e non serva a quel ventenne dell’articolo di Gramellini che pensa: “non mi piace lavorare la sera mentre gli altri escono”. Il problema, in questo caso, è familiare.
La soluzione al problema richiede un’altra analisi…e temo…decenni di attesa per la “sistemazione”. Ammesso e non concesso che noi adulti abbiamo compreso quanto “non bene” facciamo ai giovani e quanto sia urgente che iniziamo a capire che fare e in che modo.
E..non certo calci in culo ma…ricordare che la porta da dove si entra è anche quella da dove si esce aiuta i giovani a essere meno (rigorosamente tra apici) “sofistici” (termine di derivazione filosofica che ha assunto un’accezione negativa).

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