Leggere il
‘buongiorno’ di Gramellini di qualche giorno fa
(http://taccuinodiunamarziana.blogspot.com/2012/06/il-buongiorno-di-massimo-gramellini.html)
mi ha fatto riandare ad alcuni pensieri che non ho mai avuto tempo di scrivere.
E’ un argomento
che i cosiddetti mezzi d’informazione scansano, cui parte degli italiani manco
pensano e che un’altra parte d’italiani si dice da qualche tempo: “oggi sono tutti laureati, dove li
mettiamo?” e “ci sono giovani che
certi mestieri non li vogliono fare”.
Nell’articolo,
Gramellini racconta di un giovane disoccupato cui “non piace lavorare la sera mentre gli altri escono”.
Bene. Va tutto
bene. E’ normale che uno abbia preferenze di vita e di professione ed è
sicuramente un miglioramento sociale rispetto a molti anni fa, quello di vivere
in un paese nel quale non si deve necessariamente adattarsi per campare. I miei
nonni, i miei genitori, mancano le pensavano certe cose. Se disgraziatamente le
avessero non solo pensate ma anche dette erano…calci in culo.
Abbiamo
indubbiamente fatto un salto di civiltà. O no?
Scegliere,
accettare o escludere, va bene. Va tutto bene nella misura in cui uno non parta
dal presupposto che l’unica responsabilità della sua condizione sia sempre di
“altri”.
E’ un giovane
“sincero” quello che dice alla Fornero: ‘non
mi piace lavorare mentre gli altri escono’. Il che dimostra che la
sincerità è sempre la migliore qualità: dice chi sei, mostra quello che sei.
Certo…se sei pirla…
E’ un giovane
fortunato quello che si è incrociato con la Fornero.
Non solo i miei
nonni e i miei genitori, ma anch’io a vent’anni, quando ancora vivevo in
famiglia, se avessi detto una simile frase, i miei genitori
mi avrebbero (la
prima volta) civilmente risposto in questo modo: cercatene un altro, intanto prendi questo e i soldi li dai in casa.
L’alternativa era
semplice e sintetica e l’ho fatta mia negli anni: quella è la porta da dove entri, quella è la porta da dove esci.
Figuriamoci, se potevo
pensare di non accettare un lavoro qualora avessi deciso di andare a vivere per
conto mio.
Ho scelto un
lavoro che non corrispondeva a ciò cui aspiravo. Ho fatto bene ad accettarlo,
sono cresciuta professionalmente nel tempo ingoiando un po’ di rospi ma non
dovendo piegarmi né adattarmi a certe logiche.
I rospi li ho
anche sputati.
Se potessi tornare
indietro, cercherei un’altra professione ma sono consapevole che non esiste un
mestiere che mi permetterebbe una soddisfazione totale. Mi considero più
fortunata di alcuni – per quanto nessuno mi abbia mai regalato nulla -, meno di
altri. E considero certe lamentele un insulto a chi sta peggio.
Non è buonismo. E’
buon senso.
C’è poi
quell’altro aspetto da considerare. Quello del “oggi son tutti laureati, dove li mettiamo?”
C’è, da molti
anni, la moda del liceo. Le scuole professionali sono considerate serie ‘b’. Il
merito va sicuramente ai vari ministri della pubblica (d)Istruzione. E mi pare che anche le ultime ideuzze “tecniche”
(ministro Profumo) non modifichino la distanza tra la scuola e il mondo del
lavoro.
Dove li mettiamo
tutti questi laureati? Non li mettiamo…Vorresti un numero chiuso, una scuola
selettiva?
No. Vorrei una
scuola superiore nella quale per un periodo fossero insegnate materie diverse:
umanistiche e cosiddette tecniche. Non
posso pensare che a un ragazzo di 14-15 anni non s’insegnino principi base di
filosofia e storia dell’arte, come esprimersi in lingua italiana e inglese,
principi base di diritto costituzionale e civile, principi di economia. Non ha
senso che chi sceglie il liceo non studi diritto ed economia. Non sono materie “tecniche”,
sono materie sociali.
Non ha senso che
chi sceglie un istituto professionale – a parte alcune nozioni infilate nei
libri d’italiano e storia – non sappia distinguere Leonardo da Vinci da
Picasso.
La scuola
selettiva non è solo dare strumenti e incentivi ad alcuni lasciando indietro
altri. La selezione avviene, innanzitutto su: ciò che insegni e come lo
insegni.
Non esiste una
riforma della scuola che dia agli insegnanti capacità di comunicare ma può
esistere una scuola che sappia impostare programmi di studio, indirizzare e
valorizzare gli studenti.
Un periodo
“generalistico” consente ai ragazzi di capire quale indirizzo di studi
approfondire. Terminato il secondo periodo di approfondimento (fosse anche
umanistico) si apre l’ultimo periodo: quello di avvio alla professione oppure
all’università.
Il discorso chiede
sicuramente di essere ulteriormente analizzato e sviluppato, ma, per dirla in
pochi concetti macro: un periodo di studio “generalistico” trasversale (materie
attualmente di diversi indirizzi scolastici), un periodo specialistico e un
periodo di avvicinamento e avvio pratico al mondo del lavoro. Non sarà una
grande idea e parte di questa è forse già in attuazione, ma ritengo che uno
degli aspetti positivi di questa impostazione possa essere quello di ridurre
certe distanze status, che indirizzano verso i licei senza che questo tipo di
scuola sia utile per sbocchi professionali.
Il liceo, in sé,
non serve a un organo sessuale maschile. Il liceo, in sé, non è sinonimo di
cultura. La conoscenza, la cultura, te la fai negli anni e deriva da più
elementi. Il liceo prepara, sostanzialmente, potenziali disoccupati. Ma vuoi
mettere dire: “mio figlio va al liceo,
anziché dire: “mio figlio va all’Istituto
professionale servizi”.
Per chi ha fatto
il liceo, iscriversi all’Università è quasi una scelta obbligata, perché non si
hanno i requisiti per interessare il
mondo professionale. Cinque anni di studio dovrebbero invece servire per dotare i ragazzi di un’istruzione appropriata, per
avere possibilità di sbocchi professionali immediati o per accedere
all’Università.
Una scuola che
indirizza più direttamente al mondo professionale ma priva i ragazzi di alcuni
elementi di istruzione e una scuola che “filosofeggia” o è solo preparatoria
all’Università non ha senso, né dal punto di vista culturale né dal punto di
vista sociale. Non dobbiamo crescere ragazzi “monchi”, dobbiamo individuare il
“kit” essenziale (che dovranno comunque sviluppare nel tempo) perché diventino
soggetti autonomi mentalmente, in grado di interagire con coetanei e adulti, di
inserirsi nel resto del contesto sociale. La riforma Gelmini o quelle
precedenti sono idonee a raggiungere questi obiettivi?
L’istruzione –
perché quale sia l’istituto scolastico, nella migliore delle ipotesi produce
istruzione e non cultura - serve per dare una conoscenza base e per indicarti
una predisposizione. Il mondo del lavoro è altro. Ma se arrivi a questo con una
buona base e avendo esercitato il cervello nello studio di ciò che ti è
piaciuto e nel quale hai trovato corrispondenza, avrai più probabilità di
essere selezionato. Non solo: avrai una maggiore possibilità di scelta e non
vivrai alcuni mestieri come un adattamento o peggio ancora: come qualcosa
“contro natura”.
Certo…temo che
anche questa scuola che ho sommariamente descritto non piaccia e non serva a
quel ventenne dell’articolo di Gramellini che pensa: “non mi piace lavorare la sera mentre gli altri escono”. Il
problema, in questo caso, è familiare.
La soluzione al
problema richiede un’altra analisi…e temo…decenni di attesa per la
“sistemazione”. Ammesso e non concesso che noi adulti abbiamo compreso quanto
“non bene” facciamo ai giovani e quanto sia urgente che iniziamo a capire che
fare e in che modo.
E..non certo calci
in culo ma…ricordare che la porta da dove si entra è anche quella da dove si
esce aiuta i giovani a essere meno (rigorosamente tra apici) “sofistici”
(termine di derivazione filosofica che ha assunto un’accezione negativa).
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